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Intervista a Joseph Ratzinger (a cura di Vittorio Possenti)

Intervista a  Joseph Ratzinger
Le religioni mondiali e la domanda sulla verità
(a cura di Vittorio Possenti)
Annuario di Filosofia, Mondadori 2002

1) Quali mutamenti è possibile diagnosticare nel passaggio d’epoca, di cui è segno il nuovo millennio, nell’ambito delle religioni mondiali e in particolare nel cristianesimo?

Oggi tutte le grandi religioni mondiali stanno vivendo un processo di profonde fusioni, trasformazioni e crisi. Nel XIX secolo si era giunti per la prima volta a un intenso contatto fra il cristianesimo e le religioni dell’India. Esso ha portato al fenomeno sfaccettato del neoinduismo, a una nuova interpretazione dell’eredità spirituale indiana, che accoglie sollecitazioni del cristianesimo, ma che proprio così facendo vuole conservare la sua identità e consolidarla di fronte alla religione cristiana. Il fenomeno più saliente a cui si assiste è l’assunzione dell’universalismo cristiano, e dunque della spinta missionaria, da parte dell’induismo; universalismo che fino a ora era del tutto estraneo alla religione induista. In questa prospettiva la propria particolare religione viene vissuta come se fosse universale: la radice mistica della religione indiana sarebbe ciò che veramente accomuna e abbraccia tutto, ciò in cui tutte le singole espressioni religiose troverebbero la loro dimora. La consapevolezza che dietro a tutte le forme di religiosità si nasconda l’Uno ineffabile, in cui noi tutti siamo identici a Dio, si congiunge oggi con il relativismo occidentale ed esercita, a partire da qui, una particolare forza d’attrazione. Qualcosa di simile si potrebbe dire circa gli sviluppi del buddhismo, il cui concetto di compassione viene avvicinato a quello dell’amore cristiano, intendendo così di nuovo evidenziare l’identità ultima delle religioni. Tuttavia alle tendenze universalistiche si contrappongono anche reazioni particolaristiche, che vogliono consapevolmente racchiudere entro ben definiti confini ciò che è estraneo, che intendono affermare la propria identità e che rifiutano il cristianesimo in quanto estraneo e l’attività missionaria in quanto imperialismo religioso. Inoltre è presente in tutto il mondo una tendenza alla politicizzazione della religione: la sua universalità consisterebbe, in definitiva, nel suo utilizzo a fini politici per difendere la giustizia, la pace e per preservare la creazione. Ben vengano questi obiettivi! Ma là dove la religione viene misurata secondo i suoi scopi e secondo la sua utilità nella politica mondiale, la si distrugge dall’interno. A ciò è collegata la tendenza all’universalizzazione della teologia della liberazione. Al buddhismo, in primo luogo, nulla è così estraneo quanto l’idea di cambiare il mondo e di dare un nuovo assetto alle istituzioni mondane. Ma sulla via che conduce a una diversa interpretazione dell’idea di compassione K.N. Jayatilleke, per esempio, è potuto giungere fino al punto di spiegare la democratizzazione della società come una esigenza insita nel buddhismo. Non stupisce allora che nella situazione in cui si trovava il Medio Oriente potessero nascere teologie della liberazione di impronta islamica. Si tratta di un fenomeno marginale nel processo della rinascita dell’islam. Anche questo processo è molto stratificato e non sarebbe concepibile senza il contatto con il cristianesimo. Esso trae vantaggio soprattutto dalla povertà della fede dei cristiani, dal predominio di filosofie radicalmente secolariste nel mondo occidentale, da cui il sentimento religioso dei popoli islamici prende le distanze: il cristianesimo sembra aver perso la sua forza vitale, e ciò fa sì che si faccia sentire ancora di più la forza religiosa dell’islam. In questi processi la componente politica è rilevante, tanto più che per l’islam l’elemento politico non è comunque scindibile da quello religioso. Tuttavia bisognerebbe guardarsi dall’interpretare tutto questo solo in chiave politica misconoscendone la forza religiosa, tutt’altro che assente. Il disgregamento del cristianesimo a opera del pensiero secolarista ha portato in Occidente a nuove forme di religiosità, che si celano dietro la cangiante etichetta di «New Age». Non si cerca la fede ma l’esperienza religiosa, si va alla ricerca dei sentieri che conducono all’unione «mistica», e in tal modo si giunge anche a una riscoperta delle religioni precristiane, si assiste a un ritorno di dèi e riti precristiani. La madre terra e il padre sole, se considerati insieme, corrispondono alle idee egualitaristiche dell’epoca più che la fede nel Dio unico; le immagini mitiche sono in auge e i rituali semimagici appaiono più promettenti della sobria ebbrezza della liturgia cristiana, per non parlare delle sue atrofizzazioni razionalistiche dei tempi recenti.

Siamo così giunti al cristianesimo. Si possono subito riconoscere due tendenze fondamentali che si contrappongono reciprocamente: da un lato i tentativi di un proseguimento sul cammino della razionalizzazione e di un adeguamento, il più completo possibile, ai moderni standard di vita. Questi conformismi non conducono però per loro natura a un rafforzamento del vincolo religioso, ma alla sua progressiva dissoluzione. Un cristianesimo che va d’accordo con tutto e che è compatibile con tutto è superfluo. Del resto nei razionalismi estremi è sempre incombente il rovesciamento nel mito, che non ha bisogno di una giustificazione razionale, bensì rappresenta un irrazionale programma aggiunto per la realizzazione della concezione secolarista del mondo. Dall’altro lato si hanno risvegli della fede di rinnovata intensità, che all’interno della Chiesa si manifestano nei movimenti religiosi, mentre al di fuori di essa assumono forme ecclesiali autonome. Ciò che più salta agli occhi è la rapida crescita delle Chiese pentecostali, che mostrano fervore religioso, fede salda e nel contempo un interesse relativamente scarno per le questioni di carattere istituzionale; quello che contraddistingue i pentecostali è il forte risalto dato all’esperienza religiosa. Grande successo hanno le cosiddette comunità fondamentaliste, che sono caratterizzate da una chiara professione di fede e da nette delimitazioni di confini nei confronti del mondo secolare. Chi crede vuole sapere in che cosa crede e perché crede; cerca fermezza, decisione e un percorso chiaro. Tutti questi fenomeni, naturalmente, si possono osservare anche nella Chiesa cattolica. Diventa sempre più evidente come l’adeguamento progressivo, il continuo confondersi dei tratti essenziali della fede, non apra alcuna via verso il futuro. Per la Chiesa cattolica è importante possedere una chiara consapevolezza della sua universalità, sia nella prospettiva sincronica sia in quella diacronica: essa unisce uomini e culture di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La Chiesa cattolica è una forza che unisce in un mondo minacciato dai particolarismi. Questo nel contempo sta a significare il suo carattere metapolitico: in se stessa la Chiesa non è uno strumento politico, la fede ha il suo ambito proprio, che costituisce un correttivo di tutto ciò che è politico e contemporaneamente è forza morale per la sua giusta configurazione. In definitiva, la fede dà all’essere umano i contenuti essenziali sul suo «da dove» e sul suo «verso dove»: una certezza che ci accomuna e ci sostiene durante la vita e al momento della morte. Tale fede da un lato è aperta alla ragione; l’apertura nei confronti della ragione e la responsabilità verso di essa è essenziale per la fede. Ma la fede conferisce alla ragione anche un’ampiezza di orizzonti e una certezza che la ragione, proprio nelle domande essenziali dell’esser-uomo, da sé sola non può avere e che ci conduce oltre la sola ratio, verso la profondità dell’intellectus (per riprendere una distinzione dei Padri e del Medioevo), dischiudendo anche la dimensione della mistica, del contatto dell’anima da parte del Dio vivente.

 

2 Dopo il declino della critica, lungamente sollevata, secondo cui la religione varrebbe come oppio dei popoli, quali interrogativi e problemi verosimilmente interpellano con maggior vigore la coscienza umana e religiosa del XXI secolo?

È difficile fare previsioni, perché potrebbero sempre entrare in scena improvvisi cambiamenti della coscienza storica. All’inizio del XX secolo chi avrebbe potuto prevedere che negli anni Venti il liberalismo sarebbe stato improvvisamente considerato una ideologia borghese ormai superata, al cui posto erano subentrati l’esistenzialismo, la filosofia dei valori e nuovi abbozzi della metafisica? All’inizio degli anni Sessanta chi avrebbe potuto prevedere che nel 1968 sarebbe sopraggiunta una svolta che a sua volta rigettava l’esistenzialismo come filosofia borghese e invece implicava di rivolgersi con passione al marxismo? Allo stesso modo anche noi oggi non possiamo prevedere i possibili cambiamenti della coscienza collettiva. Come appare dalla situazione attuale, ci saranno da un lato una riabilitazione del mito e delle forme di religiosità di impronta mitica, in cui l’essere umano cerca l’esperienza della comunità, dell’unità di anima e corpo, dell’unitotalità e la fuoriuscita dai vincoli del mondo della tecnica come momenti di libertà, di oblio, in sintesi di felicità. A tale riguardo potrebbe ulteriormente aumentare la frattura fra il mondo del razionale e i mondi dell’esperienza irrazionale. Ciò significherebbe poi in ambito filosofico un ulteriore allontanamento dalla metafisica e un consolidamento del dominio del positivismo come unica forma della razionalità, per cui la capacità di comprendere che cosa sia la ragione e che cosa sia razionale si riduce sempre più. Ma vedo anche possibili nuovi risvegli della fede cristiana, di una cattolicità viva, e da ciò giungeranno anche nuovi impulsi per la filosofia. Come negli anni Venti del secolo scorso la fenomenologia husserliana all’improvviso aveva aperto le porte per un rinnovamento della metafisica e il personalismo aveva mutato il quadro della filosofia, così una fede rinnovata aprirà di nuovo alla filosofia le porte delle domande primigenie dell’essere umano – domande fondamentali e mai risolte – sulla sua origine e il suo futuro, sulla vita e la morte, su Dio e l’eternità.

 

3) Il liberalismo filosofico, di cui è nota la considerevole diffusione ai vari livelli della cultura occidentale, continua a sostenere che il primo e fondamentale «bisogno umano» debba ravvisarsi nella libertà. Considerando questo assunto, si fa strada la riflessione se non siano presenti nell’uomo bisogni, domande, esigenze almeno (e forse più) fondamentali di quello vertente sulla libertà, la quale dal liberalismo filosofico è intesa solo come libertà di scelta. Non sembra questa una seria restrizione del problema?

In effetti ci troviamo di fronte a una pericolosa unilateralizzazione delle domande fondamentali sull’esistenza umana. Il concetto stesso di libertà viene ridotto indebitamente. In generale il concetto di libertà non solo è ridotto a quello di libertà di scelta, ma è anche concepito da un punto di vista esclusivamente individualistico; per fare un esempio, nel senso in cui una volta era stato formulato dal giovane Marx: La libertà consiste «nel fare oggi questo, domani quello… proprio a seconda di come ne ho voglia». Ma in tal modo si dimentica che l’umanità ci è data solo nel nostro essere l’uno con l’altro e che la mia libertà può funzionare solo in unione con la libertà degli altri. Siamo collegati l’un l’altro in un sistema di prestazioni reciproche: solo così nutrimento, salute, lavoro e tempo libero possono essere assicurati. La mia libertà è sempre una libertà dipendente, una libertà con gli altri e attraverso gli altri. Senza la sinergia con le altre libertà, la mia libertà annienta se stessa. Dunque, la libertà in primo luogo deve tener conto del reciproco essere l’uno con l’altro. Non può essere arbitrarietà, ma ha bisogno dell’ordinamento delle libertà e dell’osservanza delle sue regole. Se così è, segue subito la duplice domanda: chi stabilisce queste regole? E qual è il criterio secondo cui vengono istituite? Alla prima domanda oggi rispondiamo rinviando alla democrazia come forma regolatrice delle libertà, e ciò è giusto. Tuttavia rimane la seconda domanda, perché devono pur esserci dei criteri per il giusto ordinamento delle libertà. Ora, noi diciamo: è la maggioranza che decide. Ma ci possono anche essere maggioranze malate, e il secolo scorso lo ha dimostrato. Ci può essere una maggioranza che decide che una parte della popolazione deve essere sterminata perché ostacola il godimento della propria libertà. Oppure che un popolo confinante deve essere combattuto perché restringe il proprio spazio vitale. Ci sono norme che nessuna maggioranza può abrogare. Così è davvero necessario porre la domanda: quali sono i beni che nessuno può distruggere senza distruggere l’essere umano e in tal modo anche la libertà? La domanda sull’incondizionatamente buono e sull’incondizionatamente malvagio non può essere elusa, se ci deve essere un ordinamento della libertà che sia degno dell’uomo. La libertà è un bene, ma è tale solo in una rete di rapporti con altri beni, dai quali solo risulta chiaro che cosa sia libertà effettiva e che cosa libertà illusoria.

4) Nonostante la fine catastrofica dell’«ateismo scientifico-dialettico» di origine marxista, permane nella cultura occidentale postmoderna una forte obiezione nei confronti del cristianesimo, che si esprime come agnosticismo e ateismo aggressivi di origine empiristica, scientistica, scettica. Stanno vincendo Hume e Bentham? Come valutare l’atteggiamento che intende prescindere sistematicamente da Dio nel campo civile, procedendo etsi Deus non daretur? Sarebbe questo il canone centrale di ogni autentica morale laicista?

In effetti sembra che attualmente il pensiero continui a svilupparsi in questa direzione. Dopo che il marxismo, di fronte alla svolta del 1989, continua ancora oggi a trovarsi in una pausa di riflessione, le filosofie simili a quella del razionalismo critico di Popper corrispondono maggiormente al senso contemporaneo di ciò che si può considerare razionale. La verità in quanto tale – così si pensa – non può essere conosciuta, ma si può avanzare a poco a poco solo con i piccoli passi della verificazione e della falsificazione. Si rafforza la tendenza a sostituire il concetto di verità con quello di consenso. Ma ciò significa che l’uomo si separa dalla verità e così anche dalla distinzione tra il bene e il male, sottomettendosi completamente al principio della maggioranza. Ho già cercato poc’anzi di indicare dove ciò possa condurre e quale tirannia della falsità possa essere istituita nel dominio esclusivo del principio del consenso. Il cammino in questa direzione comincia già, naturalmente, nell’idealismo tedesco, quando si parte dal presupposto che l’uomo possa conoscere non la realtà in quanto tale ma solo la struttura della sua coscienza. Nel frattempo filosofie come quelle di Singer, Rorty, Sloterdijk indicano ulteriori radicalizzazioni nella stessa direzione: l’uomo progetta e “monta” il mondo senza criteri prestabiliti e così supera necessariamente anche il concetto di dignità umana, sicché anche i diritti umani diventano problematici. In una siffatta concezione della ragione e della razionalità non rimane spazio alcuno per il concetto di Dio. E tuttavia la dignità umana alla lunga non può essere difesa senza il concetto di Dio creatore. Essa perde così la sua logica. Naturalmente noi non possiamo e non ci è consentito di costringere alcuno a credere in Dio. Tanto più urgente è allora il compito di far di nuovo valere il concetto di Dio creatore nella sua razionalità e di tenerlo presente nel conflitto della ragione. Riguardo a ciò i pensatori cristiani hanno una grande missione davanti a sé.

 

5) Osservatori di varia estrazione sostengono che è in atto un abbandono interno alla Chiesa delle «prove» della verità del cristianesimo, della sua pretesa alla verità. Si adduce a conferma che gli esponenti cristiani amino dialogare solo con quei settori della cultura che accolgono solo la funzione sociale della religione, la sua utilità civile, i suoi simboli, mentre si mostrerebbero indifferenti alla verità degli asserti di fede. A suo parere, si può assegnare validità a tale diagnosi, secondo la quale la prassi attuale del cattolicesimo riterrebbe secondaria la verità dei propri contenuti?

Probabilmente è vero che importanti settori del cattolicesimo attualmente nel dialogo con i non credenti accantonino la domanda sulla verità considerandola priva di prospettive e quindi sterile e vogliano focalizzare il dibattito sull’utilità sociale della fede. Per specifiche fasi della discussione questo può essere ammesso oppure può costituire l’unica via percorribile. Ma se complessivamente si volesse lasciar cadere la pretesa alla verità e in tal modo si intendesse declassare il cristianesimo da «verità» a (utile) abitudine («tradizione»), questo significherebbe la rinuncia del cristianesimo a se stesso. Il cristianesimo sarebbe certo perfettamente inglobato nel sistema del mondo moderno, però avrebbe perso la sua anima. Dunque Cristo non potrebbe più dire: «Io sono la verità», ma sarebbe retrocesso all’ordine di grandezza di un uomo con una significativa esperienza religiosa oppure a quello di un riformatore della società che purtroppo ha fallito. Del resto la Chiesa proprio grazie all’altezza della sua pretesa rende un servizio alla società; essa non permette di rimanere ancorati alle filosofie del consenso o alle tecniche sociali; la Chiesa ci esorta sempre di nuovo a porci la domanda sulla verità, solo così la statura dell’uomo può essere preservata. A partire da ciò mi spiego una buona parte dello scandalo ma anche l’intrinseca necessità della dichiarazione «Dominus Iesus», che appunto non permette di acquietarsi nella compresenza di differenti «tradizioni religiose», ma pensa più in grande dell’uomo: egli è chiamato alla verità, ed è costituito in modo tale che non ci sono solo differenti forme di esperienza religiosa, ma c’è anche l’uomo che è Dio. Questa pretesa non può essere taciuta oppure sminuita per comodità.

 

6) Dal lato del cristianesimo e del suo rapporto con le altre religioni si presenta la questione della sua verità (parziale? storica? universale?). Quale posizione assumere fra chi sostiene che il cristianesimo è funzionalmente idoneo a soddisfare i bisogni religiosi, in linea di principio storicamente variabili e situati secondo le culture, del solo uomo europeo e chi difende la portata universale del cristianesimo? Come mantenere la pretesa cristiana alla verità, se si assume che l’idea stessa di verità non sia applicabile alla religione, la quale verterebbe solo sulla pietà e i costumi ed escluderebbe la conoscenza?

In parte ho già risposto alla domanda con quanto ho appena detto. Ho fatto poc’anzi allusione a una bella frase di Tertulliano: «Cristo non ha detto di essere l’abitudine, bensì la verità» (Virg. 1,1). Se Cristo non è la verità, allora non c’è più alcun fondamento per la pretesa cristiana all’universalità e per la missione. Se la fede cristiana è solo una tradizione religiosa, anche se certamente una tradizione significativa, non è più comprensibile il motivo per cui dovrebbe essere impartita agli altri. Al contrario, la verità è per tutti una sola, e se Cristo è la verità, allora riguarda tutti; allora è una colpa occultarla agli altri. Se si definisce il cristianesimo una religione europea si dimentica che non è nato in Europa e che nei primi secoli si è diffuso in modo uniforme sia in Europa sia in Asia; la missione nestoriana aveva raggiunto l’India e la Cina; l’Armenia e la Georgia sono antiche terre cristiane. Anche nella penisola arabica c’era una rilevante presenza di cristiani; presenza che fu notevolmente indebolita dal successo dell’islam, ma che ciò nonostante non si riuscì a far scomparire. Queste comunità cristiane orientali, per le quali già Antiochia e a maggior ragione Costantinopoli e Roma erano considerate «occidente», non hanno mai smesso di esistere.

Oggi l’opposizione più forte al cristianesimo proviene dall’Europa e dalla sua filosofia postcristiana, mentre nei paesi extraeuropei la fede trova un sostegno sempre più forte. A questo si obietta che il cristianesimo, nella manifestazione concreta che ha assunto, ha ricevuto la sua impronta soprattutto dalla filosofia greca e dai suoi sviluppi nel pensiero medievale nonché dal pensiero europeo moderno, per far derivare da ciò il diffuso postulato della deellenizzazione e del puro ritorno alla Bibbia. In questa prospettiva si dimentica però in primo luogo che la filosofia greca nell’incontro con il messaggio cristiano ha subito un profondo processo di ri-fusione. In opposizione a ciò ci fu una reazione in campo filosofico che si contrappose a questa trasformazione cristiana e alla nuova sintesi delle culture, con l’intento di preservare l’elemento autenticamente greco. Ma qui si dimentica anche che già nell’Antico Testamento ha avuto luogo un incontro tra il pensiero greco e l’antica tradizione biblica: il processo dell’incontro fra le culture è quindi già avviato nella Bibbia stessa. Inoltre si dimentica che, viceversa, la filosofia greca, in particolare con Platone, ha ricevuto forti influssi dalle tradizioni orientali, e dunque essa stessa presuppone una fusione di culture; con Plotino il pensiero greco si rivolge di nuovo alle tradizioni dell’Asia ed entra in contatto con alcuni orientamenti dello spirito indiano.

Ma soprattutto si dimentica il senso autentico e profondo dell’incontro della fede biblica con la filosofia greca: si tratta di impedire un autoisolamento e una riduzione della fede biblica in una tradizione religiosa particolare, di esporsi alla pretesa della ragione che accomuna tutti gli uomini e di tener ancorato il cristianesimo alla domanda sulla verità come unica chiave della sua universalità e come obbligazione che gli viene conferita dalla figura di Cristo. Chi voglia liquidare questo confronto con la ragione e con la domanda sulla verità considerandolo una «ellenizzazione» particolarizza il cristianesimo  e lo riduce a espressione di una forma particolare e giammai universale di esperienza religiosa. Il Papa nell’enciclica Fides et ratio ha inserito queste connessioni nel dibattito filosofico e teologico contemporaneo: si tratta di superare l’«abitudine» e di rimanere sulla via della verità. È un appello che riguarda tutti.

 

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