Il presente contributo di Vittorio Possenti è stato pubblicato sulla rivista online LineaTempo – Nuova Serie. 2013 – volume 33/2023, ed è reperibile in pdf al seguente link: L‘arma a doppio taglio della tecnica
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L’arma a doppio taglio della tecnica
Per una filosofia della tecnica non “fisicalista”
di Vittorio Possenti
Il testo presente costituisce una rielaborazione de L’ambiguità della tecnica, già apparso in La società, n. 4, 2017.
1. Homo oeconomicus e homo technicus. Da gran tempo sperimentiamo i guasti prodotti dall’ideologia dell’homo oeconomicus, guidato dalla spinta dell’interesse individuale e della massima utilità per sé stesso. È l’uomo che si esprime nel tempio idolatrico della finanza, la quale rappresenta insieme alla tecnica il fondamentale vettore di dominio globale e della forma assunta concretamente da settori importanti della globalizzazione. Crescente è il numero delle vittime della globalizzazione, di coloro che introdotti nel grande processo planetario non ce la fanno a stare a galla e vengono espulsi, con l’esito di aggravare le diseguaglianze. Nell’ideologia del self interest e dell’economismo circola una concezione riduttiva dell’essere umano, ricondotto a produttore e consumatore; non meglio, anzi peggio, vanno le cose nell’ideologia finanziaria per la quale il denaro o la massa finanziaria cresce su sé stessa e si autogenera senza contropartite reali.
Alla concezione antropologica dell’economismo finanziario viene talvolta accostata quella promanante dall’ideologia della tecnica. L’homo technicus non è solo l’essere umano che usa, non di rado senza freno, delle tecnologie disponibili, ma che – e questo conta molto di più – è considerato da diverse concezioni come un essere che è ridotto all’elemento tecnico e che si esprime solo tramite questo. Taluni addirittura sostengono che l’intera tradizione occidentale abbia compreso l’essere umano solo come produttore e inventore di tecniche, e che in ciò consista il nichilismo occidentale.
Conosciamo la richiesta che viene elevata dovunque per contrastare le derive dell’economismo finanziario e del tecnicismo: dateci un’etica all’altezza della situazione, capace di porre un argine alle due massime ‘potenze senza etica’ appena citate, e che dominano. Domanda legittima e anzi necessaria che sale dalle coscienze incerte e offese, ma che non è risolutiva. L’etica da sola non è a misura di quella dismisura che sono l’avidità della finanza globale e la volontà di potenza della tecnica. Per venire a capo della loro forza occorre aggiungere all’etica un’adeguata conoscenza dell’uomo: qui la situazione è ancora più seria che nel campo morale, poiché tale conoscenza è oggi un bene scarsissimo. Pia esagerazione? Non vi è una miriade di scienze naturali e umane che indagano e quasi assediano da ogni lato l’essere umano, che sembra cedere sempre più rapidamente i suoi segreti? Indubbiamente l’uomo è soggetto ad un’obiettivazione molteplice che offre risultati utili in tanti campi (cibernetica, scienze cognitive, genetica), ma che scompone l’essere umano, analizzandolo da un solo punto di vista, di modo che una visione unitaria sembra allontanarsi[1].
Uno splendido brano di Pascal, vergato oltre 350 anni fa, offre una prospettiva da meditare: «Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa comunicazione che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze astratte non si addicono all’uomo, e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondirne lo studio, che gli altri con l’ignorarle. Ho perdonato agli altri di saperne poco, ma credevo almeno di trovare molti compagni nello studio dell’uomo. Sbagliavo: son meno ancora di quelli che studiano le matematiche»[2]. Su un piano quantitativo l’asserto di Pascal, comparato con la situazione attuale, sembra del tutto stonato: innumerevoli sono le scienze che si occupano dell’uomo e che lo saggiano da ogni lato, eppure resta vero che l’uomo rimane uno sconosciuto: L’uomo, questo sconosciuto è il titolo di un noto libro di Alexis Carrel (1935). L’uomo è un mistero molto più grande di quello della natura, e dobbiamo esserne consapevoli tutte le volte che tramite scienze e tecnologie ci rivolgiamo a lui.
Il discernimento da esercitare sulla tecnica dipende dal fatto che essa è costitutivamente ambigua e impiegabile per il meglio e per il peggio. Un semplice sguardo ci avverte delle grandi possibilità di bene e di male che le tecniche mettono nelle nostre mani: internet può essere impiegato per comunicare come per seminare odio. Per operare il discernimento necessario la strada giusta è non ridurre l’uomo a essere tecnico, a un elaboratore della natura e di sé stesso che non sporge dal circolo della produzione.
2. Nuove responsabilità nell’era tecnologica. Questo tema immenso, la cui importanza non ha fatto che crescere nel XX secolo e oltre, pone interrogativi ineludibili sulla tecnica, l’umanesimo, le biotecnologie. Nell’enciclica Caritas in Veritate, Benedetto XVI ricorda le possibili derive del progetto tecnologico-tecnocratico, capace di far uscire la tecnica dal suo originario alveo umanistico (n. 71). Prolungando tale riflessione, ci si accorge che il paradigma tecnocratico è unidimensionale, orientato a riportare tutto alla sua propria istanza di efficienza; e che l’alleanza tra economia e tecnologia finisce per emarginare ciò che non fa parte dei loro interessi immediati (Laudato si’, n. 54). La persona è intesa non per quanto è in sé, per il suo valore intrinseco, ma per come è formata e configurata dalla tecnica, che la intende spesso entro una visione riduttivamente biologica e materialistica.
Il progetto tecnologico volge decisamente verso l’autosufficienza, assume i caratteri di una potenza senza etica che difficilmente sarà capace di autolimitare il proprio potere (Laudato si’, n. 136). La tecnica, i suoi prodotti e scopi non sono per nulla neutri – la neutralità della tecnica è un mito -, e d’altro canto le possibilità tecniche non sono la principale riserva per interpretare l’esistenza. Bisognerà perciò prendere atto che affidarsi senza discernimento alla tecnica comporta un grave rischio. Essa conosce le regole di produzione di oggetti, non le norme dell’agire, ossia le norme entro cui debbono interagire i soggetti, mentre sono proprio queste che servono.
Tale considerazione rilevante assume vigore ancora maggiore se riferita alla generazione umana. Se questa viene sottomessa alla tecnologia, emerge una sua reinterpretazione pericolosa: il passaggio della procreazione umana nell’area della produzione: factus, non procreatus, si potrebbe dire. Dinanzi al procreare inteso come atto tecnico rischiamo di scivolare verso una tirannia dell’artificialità. Il disegno originario di Dio è che l’alleanza tra l’uomo e la donna sia aperta alla procreazione e che questo atto primario è personale, non sostituibile o surrogabile da altri.Il documento preparatorio per il Sinodo 2015 fa cenno (§ 34) alle biotecnologie che consentono «di manipolare l’atto generativo, rendendolo indipendente dalla relazione sessuale tra uomo e donna. In questo modo, la vita umana e la genitorialità sono divenute realtà componibili e scomponibili, soggette prevalentemente ai desideri di singoli o di coppie, non necessariamente eterosessuali e regolarmente coniugate. Questo fenomeno si è presentato negli ultimi tempi come una novità assoluta sulla scena dell’umanità, e sta acquistando una sempre maggiore diffusione».
Non si possono pertanto trascurare le sfide delle biotecnologie che stanno compromettendo l’impianto della trasmissione della vita umana, le realtà della maternità e paternità (pensiamo alla fecondazione eterologa e alla maternità surrogata) e dunque l’idea stessa di famiglia. Qui è in gioco qualcosa di grande e prioritario rilievo, dal momento che è anteriore a ogni altro aspetto, riguarda tutti e non solo i credenti. Avanza la convinzione che l’essere umano possa risultare prodotto e selezionato come una qualsiasi merce: ciò comporta una profonda ripercussione sulla natura della famiglia e del matrimonio, in quanto trasformando la filiazione da naturale ad artificiale, e sfruttando le inedite possibilità di incroci tra i gameti e di affitto di uteri, si altera la loro realtà.
3. Le tecnologie e la scossa all’etica e all’antropologia. In rapporto a scienza e tecnologia non è necessario convocare l’etica, che si presenta da sé, per la connessione inscindibile tra impiego della tecnologia e azione sull’essere umano: e dove c’è azione, là è il luogo della morale. In modo naturale e in virtù del suo stesso essere la tecnologia esige l’etica nel momento della scoperta e ancor più in quello dell’applicazione, senza poter reclamare un privilegio di neutralità. Anzi i suoi sviluppi e la loro pervasività esercitano un poderoso stimolo sulla disciplina morale, costringendola a approfondirsi, svilupparsi, riformularsi, eventualmente a correggersi. Non è più sufficiente il ricorso ai problemi dell’etica professionale, e neppure il riferimento alla responsabilità morale dello scienziato, scaturente dall’idea che egli non possa disinteressarsi degli esiti delle proprie scoperte. È l’intero problema del futuro dell’uomo e del suo rapporto con la leva tecnologica a esigere un ripensamento, che un tempo poteva essere rinviato in rapporto al peso modesto e scarsamente intrusivo della tecnica nelle civiltà. Una filosofia della tecnica adeguata al suo oggetto dovrà comunque estendere il suo sguardo a temi ontologici, morali e antropologici: molte questioni ecologiche assumono soluzioni ben diverse nelle prospettive di un antropocentrismo moderato, o di un animalismo senziocentrico, o di un ecologismo radicale olistico che riconosce uguale valore a tutti gli enti senza differenze.
4. Scienza, tecnica ed etica. Dinanzi all’ambiguità della tecnica, l’atteggiamento largamente prevalente è di mettere le briglie al potere tecnologico, elaborando norme limitative e regole, sviluppando codici deontologici per la ricerca e per l’illimitato campo delle applicazioni che crescono con velocità iperbolica, mettendo mano a convenzioni internazionali di vario ordine. La prospettiva è di rilievo ma insufficiente, dal momento che l’applicazione del giudizio morale al caso esistenzial-concreto richiede un previo accertamento di realtà, ossia la risposta alla domanda su quale sia la natura o il carattere proprio dell’’oggetto’ su cui si applica l’intervento tecnico.
Se l’essere umano viene considerato come un qualsiasi altro ente naturale e non dotato di alcuna speciale dignità, le tecnologie esercitate su di lui non avranno le restrizioni elaborate per gli esseri umani in senso proprio. Le vite non degne di essere vissute significavano per i nazisti e i cultori di un’eugenetica materialistica l’idea che tali vite erano proprie di sotto-uomini verso cui non era necessario il grado di rispetto praticato verso gli esseri umani ’autentici’ (come per i nazisti erano gli ariani).
La tecnica considerata con lo sguardo della morale è un mezzo o uno strumento a disposizione aperto sui contrari, volta verso il meglio e il peggio, come si è detto. Ma la tecnica non è solo questo: è una potenza che viaggia sul binario dell’efficacia e dell’efficienza e che può imporre la propria logica all’essere umano. In ciò consiste la sua costitutiva ambiguità di strumento che spesso diventa padrone. Diciamo allora: la tecnica inserita nell’azione umana non è mai neutrale, né in senso etico perché può essere impiegata bene o male, né in senso antropologico, poiché il ricorso indiscriminato ad essa può renderci ciechi ai vari modi dell’esistenza e ai valori, con l’appiattimento unidimensionale della ricchezza dell’essere e della vita. Tutto ciò è stato vividamente espresso da Heidegger in La questione della tecnica: «Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che l’accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza. Ma siamo ancor più gravemente in suo potere quando la consideriamo qualcosa di neutrale; infatti questa rappresentazione, che oggi si tende ad accettare con particolare favore, ci rende completamente ciechi di fronte all’essenza della tecnica»[3].
È soprattutto il cambiamento che la magia della tecnica inocula nell’essere umano, stordendolo e affascinandolo, che deve far meditare. La tecnica forma un sistema mondiale poderoso, con il relativo apparato che si insinua dovunque, e che da molti viene ancora ritenuto un mezzo universale, ossia quello strumento supremo che consentirà una completa liberazione dell’uomo. Ma è così, oppure la tecnica non accetta regolazioni esterne, e pone a sé stessa il proprio fine, quello dell’incremento illimitato della potenza?
La tecnica diffonde uno sguardo unidimensionale sulla vita che rischia di chiudere al soggetto ogni altro rapporto con l’essere e la sua verità. La tecnica è tendenzialmente ‘antroporiduttiva’ in quanto in essa e con essa l’uomo esperimenta un mondo chiuso, prodotto da sé stesso: vede solo sé stesso come infinitamente riflesso nei prodotti della tecnica. Tutto viene mediato tramite l’artificiale, e così la cultura diventa una sorta di autocostruzione dell’uomo con la tecnica. In questo senso la tecnica spinge verso l’immanentismo e la chiusura nel finito; e verso l’illusione che attraverso i valori di base e il consenso sociale sia possibile imbrigliarla, renderla sottomessa e non condottiera.
L’idea che la tecnica sia un mero mezzo in vista di fini forse è stato vero in un passato lontano, non oggi quando il preteso strumento la fa da padrone. Ciò che tra le altre cose si deve temere è che attraverso la mentalità tecnica la ricchezza e la complessità della realtà venga profondamente alterata e appiattita. Con il suo potere dominante anche sul piano delle persuasioni fondamentali, la tecnica indirizza a credere che il meccanismo e la sola causalità efficiente costituiscano l’essenza della natura e della vita. Con la tecnica l’essere e la vita diventano oggettivabili e disponibili: produrre è portare alla presenza per manipolare ciò che non era presente. Aristotele ha illustrato con grande misura il compito dell’arte o tecnica: «Ogni arte riguarda la produzione, e il cercare con l’abilità e la teoria come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia non esserci e di cui il principio è in chi crea e non in ciò che è creato»[4]. La tecnica fa venire all’esistenza ciò che prima non c’era (in senso relativo, poiché in ogni produzione tecnica occorre presupporre qualcosa, una ‘materia prima’), compito necessario, che però diventa pericoloso se l’ideologia della tecnica inocula nell’essere umano la persuasione che meccanismo, materia ed energia rappresentino tutta la realtà.
5. Il biopotere. Vi è bisogno di una aggiornata consapevolezza delle forme nuove e crescenti che va assumendo il biopotere (biopower) come potere sulla vita e sui corpi. Esso è insito in ogni società, comprese quelle antiche: nelle società moderne differisce non solo quantitativamente ma pure qualitativamente dal biopotere delle società precedenti, in quanto si basa sul ricorso alla tecnologia e alla scienza ossia ad un potere come Macht (potenza) che in genere non tollera limitazioni o confinamenti solo nell’ambito della teoria. Il potere ha significato se viene esercitato, non vi può essere un potere teorico o un’intenzione di potere che rimanga tale. La tecnologia è un vasto potere che cresce su sé stesso e nel quale i fattori economici hanno un peso immenso.
H. Jonas confida in un’etica della moderazione, ossia che la tecnica come potenza senza etica possa trovare un punto di equilibrio: «La scienza di cui abbiamo bisogno è quella dell’eventuale moderazione, del fatto quindi che si rinunci, con giudizio e consapevolmente, a determinate possibilità di esercizio del potere. Resta solo da vedersi se una volta arrivati all’acquisizione del potere si riesca ancora a rimanere padroni di quanto tale potere viene o meno esercitato. Ciò che in realtà è diabolico nella tecnologia alimentata dalla scienza è che essa conduce da potere a potere, e il potere consiste unicamente nell’esercizio. Il vero potere c’è solo quando si applica realmente l’astratta possibilità. Dobbiamo tornare ad un concetto di contemplazione, di teoria, che è separato dal riferimento al potere e a quello che ci si può fare. Abbiamo bisogno di una ricostituzione dell’originario concetto classico di teoria, di contemplazione, la quale non fa proprio nulla ai suoi oggetti di conoscenza, bensì li osserva e li lascia essere quel che sono»[5]. Peraltro la prospettiva di una scienza contemplativa cade al di fuori del progetto moderno, nel quale Bacone e Cartesio hanno invitato a farsi signori e dominatori della natura.
Oggi il biopotere si manifesta in specie come potere sulla generazione della vita e potere sulla fine della vita. Questo secondo potere era ben presente negli Stati e si concretava nella pena di morte; il potere sulla vita non-nata e nascente – anch’esso non certo ignoto agli antichi – è per vari aspetti specifici contemporaneo e crescente. Potere sulla vita significa potere sui corpi. Nel XX secolo abbiamo conosciuto due forme estreme di potere sui corpi: il campo di concentramento o lager finalizzato alle camere a gas, che assumeva la veste di un dominio pieno, assoluto e incontrastato sui corpi; e lo Stato totalitario finalizzato al controllo esteso e occhiuto del corpo sociale, dunque orientato ad ottenere corpi docili. In questi casi il potere biopolitico era in poche mani.
Attualmente siamo dinanzi ad una nuova forma di biopotere e biopolitica, quella delle società liberaldemocratiche dove lo Stato ritiene suo compito venire incontro alle più varie pretese dei singoli entro un’etica del fai da te: essa manifesta che nella sfera pubblica è sempre più raro trovare nuclei di condivisione. Vige il rompete le righe e il bricolage etico in cui i diritti dei deboli e dei senza voce contano sempre meno. Qui il potere biopolitico è nelle mani di molti, o meglio viene in maniera crescente reso disponibile a molti da un sistema industrial-economico che offre vari pacchetti per varie esigenze. Stiamo procedendo verso un pluralismo o frammentazione di permessi/divieti che non lasciano bene sperare, in quanto la frontiera tra ciò che è permesso e ciò che è vietato muta rapidamente a favore del permesso. Nella pubblica opinione è alquanto diffusa l’idea che tutto ciò che è tecnicamente fattibile sia, per ciò stesso, moralmente legittimo.
Il biopotere attuale appare in crescita, ed è arduo limitarlo perché si diffonde all’insegna dell’utilità. I suoi vettori principali si riconducono al suo influsso tramite lobbies e media su politica e corti di giustizia, all’ideologia libertaria che è notevolmente diffusa in numerose istituzioni, alla forza del denaro, del mercato, del profitto, alle richieste e desideri dei singoli. La forza del biopotere agisce su vari piani, compreso quello istituzionale: parlamento europeo e corti di giustizia, in specie quella di Strasburgo (Corte Europea dei Diritti Umani), dove da tempo prevale un’interpretazione libertaria della Carta dei diritti dei cittadini dell’UE (Carta di Nizza). Un’interpretazione molto estensiva dei diritti dell’adulto (adultocentrismo) e molto restrittiva di quella del non-nato e del debole, la riconduzione alla sfera privata di molti nuclei dell’esistenza (in specie matrimonio e famiglia), la quasi insindacabile libertà di scelta dei singoli, la caduta del tema dei doveri (come se fosse possibile scindere diritti e doveri) mostrano l’egemonia in Occidente del paradigma liberal-libertario.
Tutto questo fronte d’urto genera non di rado un timore reverenziale in chi la pensa diversamente, che teme di essere considerato retrogrado e ostile alla scienza.
6. Il sovraccarico esistenziale. Gli esiti mirabolanti della tecnica pongono un sovraccarico esistenziale crescente per l’uomo, che deve fare fronte all’aumento della potenza e al sempre più pesante fardello di responsabilità che da ciò proviene. L’onere è reso ancor più schiacciante dalla pretesa di autonomia dell’essere umano da ogni legge superiore o proveniente dalla sua natura; l’antropocentrismo è in serie difficoltà, ma non perde il sentimento che l’uomo sia la misura di tutte le cose e di se stesso. Tutto ciò intorbida lo sguardo su problema di assoluto rilievo, quello secondo cui non vi è solo la potenza della tecnica, ma pure la sua impotenza, come aveva visto genialmente Aristotele. Dal suo brano sopra citato emerge che la tecnica ha potere sulle cose che possono sia esserci sia non esserci, mentre non ne ha sull’ambito del necessario (ossia di ciò che non può non essere), il quale non è soggetto alla modificazione tecnica[6].
7. La libertà di ricerca e la responsabilità dello scienziato. La sua responsabilità si può declinare in vari modi, ma comunque è parte della responsabilità che è inerente ad ogni essere umano, e da cui questi non si può liberare. La responsabilità ultima è sempre di carattere personale. Essa non può essere mascherata o alterata sotto linguaggi esclusivamente tecnico-scientifici a cui ci si dovrebbe inchinare a priori: è il diffuso assunto di un sapere tecnico-scientifico che tappa la bocca ad ogni altra espressione, in quanto si pone come dominante. Lo scientismo si ricapitola in un assunto primario: la scienza ha l’ultima parola, poiché è l’unica che ci offre il bene della conoscenza.
In realtà, la responsabilità dello scienziato e del ricercatore va molto oltre il suo bancone e investe l’impiego concreto delle sue scoperte e applicazioni, in specie quando la ricerca deve essere verificata sugli uomini (investe la vita sociale e la politica). In ogni caso, pur essendo necessario operare una differenza tra ricerca di una conoscenza pura e la sua applicazione, tale diversità viene spesso scavalcata. È possibile ricercare e scoprire senza mettere in pratica? In teoria sì, se il ricercatore è libero e non sottoposto a vincoli, ma questa possibilità è ormai rara e soprattutto non è sufficiente. Consideriamo il caso della fissione dell’atomo. Otto Hahn e Lisa Meitner la scoprirono nel 1938 e intuirono l’enorme creazione di energia che ne poteva derivare; poi però si rifiutarono di partecipare ai programmi per lo sviluppo dell’arma atomica. Sono stati altri a farlo e senza le loro remore, conducendo esperimenti e infine bombardamenti atomici, come è stato. Quanto all’ingegneria genetica si può pensare che un certo numero di ricercatori non vogliano sviluppi pericolosi, ma ve ne saranno altri che per curiosità, gioco, desiderio di guadagno o di fama diranno che è meglio provare e tentare, per vedere che cosa capita. Orbene, se nel caso della fissione nucleare non era arduo prevedere le applicazioni distruttive e tangibili, nel caso delle biotecnologie il valore umano da loro messo eventualmente a rischio è più difficile da individuare.
Porre dei limiti morali alla tecnologia è frequentemente inteso come una forma di attentato alla sacra libertà di ricerca della scienza: le cose stanno veramente così? Per venire in chiaro su un tema tanto importante e sfaccettato, occorre in partenza distinguere tra scienza e tecnologia, e approfondire la differenza tra ‘conoscenza pura’ che è sempre buona (non esistono conoscenze cattive) e ‘azione’, ambito in cui intervengono il lecito e l’illecito, il bene e il male morale, ed in cui non vale la bontà senza condizioni della conoscenza ‘contemplativa’.
Esistono azioni proibite, ma non conoscenze proibite, e questo significa che emerge come vitale e problematico proprio lo snodo o il crocevia in cui la conoscenza pura diventa tecnica che agisce sull’essere umano. Mentre la scienza ‘teoretica’ rappresenta un incremento del sapere – ed è sempre meglio sapere che non sapere – la sua applicazione tecnologica è appunto intrinsecamente ambigua: aperta sui contrari significa esattamente questo[7].
A che cosa conduce l’invalicabile diversità tra conoscenza e azioni? Un tempo era possibile chiudersi nel proprio studio, leggere, meditare, eventualmente effettuare misurazioni ed esperimenti semplici e ne potevano sortire grandi scoperte; Bacone, Galileo, Cartesio operavano da soli e rischiavano in proprio. Da tempo è diverso in quanto per procedere nella conoscenza sono necessari mezzi giganteschi e strumenti raffinati: si pensi ad un ciclotrone, o alla mappatura del genoma. È quasi scontato che i cittadini contribuenti che di fatto hanno finanziato le spese si attendano non un ritorno economico immediato ma un’utilità su altri piani, ad es. terapeutico e/o potenziante, e questo li spinge a sollecitare risultati, anche al prezzo di sacrificare altri e magari fondamentali valori. In sostanza è come se si dicesse: abbiamo contribuito tutti e allora vediamo che utilità se ne può trarre per tutti.
Il grande problema in gioco è che la bontà senza condizioni dell’incremento delle conoscenze deve necessariamente fare i conti con i mezzi tecnici che vengono impiegati per conseguirle, e dove capita non di rado che sia il conseguimento delle conoscenze sia la loro applicazione compromettano criteri e valori primari. Un esempio che pare particolarmente calzante è quello delle ricerche sull’embrione che ne accettano in premessa la distruzione per ricavarne le cellule staminali: il fine di per sé buono della conoscenza è viziato in maniera intrinseca dalla soppressione dell’embrione, e questo perché il conseguimento della conoscenza non può avvenire in maniera contemplativa, ma agendo sull’essere umano. Quanto alle conseguenti applicazioni tecniche possiamo pensare alle tecniche di discriminazione eugenetica.
8. L’uomo è preparato al radicale mutamento di mondo che la tecnica gli propone e impone? Nell’età della tecnica cresce la spinta antiumanistica a naturalizzare l’uomo, cancellando la sua richiesta di senso e il bisogno di proiettarsi oltre l’orizzonte della caducità, cui la ragione tecnica non può assegnare risposta alcuna. Essa offre potenza, cura, successo, ma non salva né apre il cammino verso la verità. Agli inizi della modernità non fu così, anzi in Bacone ebbe corso l’assunto secondo cui scienza e tecnica andavano intese come un aiuto fondamentale, capace di restaurare il domino dell’uomo sulla creazione, perso con la disobbedienza: «In seguito al peccato originale, l’uomo decadde dal suo stato e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze»[8].
Nella prospettiva baconiana, la tecnica assume un carattere quasi redentivo per recuperare l’antico dominio sul creato. La Bibbia non lo presenta però come principalmente di tipo tecnico, ma legato ad una restaurazione fondamentale di tutti i rapporti dell’essere umano con Dio, l’altro, la natura. Nella modernità muta il modo di intendere il comando divino a riempire la terra e a soggiogarla; col procedere della secolarizzazione esso venne trasformato nell’invito a creare il regno dell’uomo e a dominare duramente le cose, di modo che il messaggio genesiaco viene sradicato dall’ambito teocentrico e il dominio di cui vi si parla da regolativo e ‘politico’ assume carattere dispotico. Perciò senza solidi motivi continua ad avere corso l’idea di una responsabilità del messaggio biblico in merito, come se l’orizzonte biblico, diversamente da quello greco, conducesse al più sconsiderato dominio e all’impossibilità perciò di opporsi alla violenza della tecnica.
Ponendo nelle mani dell’uomo il creato, Dio non lo ha invitato a sventrarlo, né ha pensato ad un dominio tirannicoma ad una guida mite, in cui siamo collettivamente responsabili verso il cosmo e l’altro. L’atteggiamento aggressivo verso la terra e l’uomo è moderno, ‘laico’ e spesso ateo. L’atteggiamento religioso si esprime nella preghiera che è un congiungere le mani. Giungendo le mani, il soggetto orante lascia da parte ogni mani-polazione, ogni fare e agire tramite le mani, ogni idea che vi siano cose e problemi che saranno risolti soltanto operando con le mani. Là dove si prega, si attesta che il fare non può tutto, che l’essere e la vita non sono completamente a portata delle nostre mani.
9. A che punto siamo nel confronto con la tecnica? La rottura rivoluzionaria nel pensiero del XIX e XX secolo è ormai alle nostre spalle, e così in notevole misura i totalitarismi. La nuova grande sfida planetaria è adesso non il totalitarismo ma la tecnica: donde la domanda: quale filosofia può fronteggiare con speranza di successo la volontà di potenza della tecnica e il suo imperium?
Guardini, Heidegger e altri pensatori di alto profilo hanno da decenni innalzato un serio avvertimento sui rischi del progetto tecnico, la sua volontà di potenza, la sua capacità di alterare la percezione della realtà e dell’essere da parte del soggetto umano. Nei volumi Potere, Fine dell’epoca moderna; Europa. Compito e destino, Guardini sostiene la necessità di effettuare un confronto aperto con la potenza e di regolarla. Egli individua il compito più essenziale affidato all’Europa nella «critica della potenza», tra cui quella tecnica[9]. La missione dell’Europa si incentra sul disciplinamento etico della potenza.
La filosofia moderna e contemporanea è in seria difficoltà nel fare i conti con la tecnica a causa dell’egemonia di un pensiero postmetafisico, che ha puntato tutto sul divenire, che tutto trasforma e che travolge ogni realtà stabile. Valga l’esempio di G. Gentile che elevò innumerevoli volte una critica al pensiero greco, reo ai suoi occhi di naturalismo e di fissismo. Egli non comprese la profondità della filosofia aristotelica della tecnica che, mantenendo la dimensione del necessario (necessario è ciò che sta così e non può stare altrimenti), considerava la tecnica priva di potenza nei suoi confronti. L’assoluto volontarismo di Gentile rifiutava ogni necessità, e pensava la vita del Tutto come un infinito divenire in cui nulla sta fermo, e tutto è trascinato dall’atto dell’Io, che in verità non differisce dalla volontà di potenza che procede incessantemente a sovvertire il mondo e l’uomo. Si tratta di un progetto mai finito in cui l’essere umano è catturato dentro un movimento universale che ha di mira l’accrescimento della potenza: la tecnica strappata via dal suo primitivo orizzonte umanistico si volge contro l’uomo ed esercita un dominio su di lui.
Secondo E. Severino, che ha dedicato riflessioni notevoli alla tecnica, questa raggiunge il dominio «perché il sottosuolo essenziale della filosofia degli ultimi due secoli mostra che l’unica verità possibile è il divenire del tutto», ed in questo movimento epocale che avanza sotto la guida della potenza «viene travolta ogni altra verità e innanzitutto la verità della tradizione dell’Occidente, che pone limiti all’agire tecnico». Il neoparmenidismo severiniano ritiene che l’intera filosofia occidentale sia fuori strada ed anzi colpita da totale nichilismo in quanto penserebbe il divenire delle cose come il loro entrare nel nulla e uscire dal nulla: una tesi storiograficamente e teoreticamente insostenibile, che allontana il pensiero severiniano dalla soluzione del problema. Può però lasciargli il compito di lanciare un grido di allarme.
Sia lecito domandare: con quale filosofia è possibile porre limiti etici e antropologici alla tecnica, se non con la filosofia dell’essere? Essa riconosce la realtà e la portata del divenire, senza però assegnare il primato ad esso e alla trasformazione radicale di ogni cosa. Se l’antropocentrismo moderno non ha infine avuto l’uomo come fine e centro, ma si è spesso consegnato alla tecnica e alla sua impersonale volontà di potenza, questo è un esito del nichilismo moderno e del primato del divenire e della trasformazione. Con tale assunto si ritiene che tutto possa essere trasformato e divenire oggetto di produzione. La posizione che si è proposta sostiene che la tecnica, pur con la sua volontà di potenza, è impotente dinanzi all’essenza umana propria di un soggetto dotato di logos, ossia di ragione e discorso: non la può cambiare poiché essa appartiene all’ambito del necessario. L’asserto non intende concludere che di conseguenza possiamo dormire sonni tranquilli: tutt’altro, perché la tecnica può infliggere enormi danni all’essere umano tentando vanamente di mutarne la natura e di farne un ‘postumano’.
Commiato. La forza delle biotecnologie alleata con la concezione libertaria rischia di condurre verso un futuro di cui ancora non si valutano le conseguenze, nel senso che i ‘diritti’ di libertà degli adulti, che sono solo una parte del problema, sovrastano ogni altro diritto in gioco, e vengono intesi nella maniera più lata, sino a emarginare i diritti del figlio e dei terzi. Le ideologie della potenza che hanno infierito nel XX secolo cambiano volto con lo scorrere del tempo ma non mutano nel fondo e sono ancora con noi: non vi sono più nazismo e comunismo ma la musica di fondo non è molto mutata. L’ideologia fisicalista ha sostituito quella totalitaria, ma pur sempre rimaniamo sotto la presa dell’ideologia.
L’homo technicus si allontana velocemente dall’homo sapiens poiché dimentica di esser parte di un ordine più alto di quello della tecnica e dell’incessante trasformazione del mondo; rischia di dimenticare la relazione con l’altro, di fondarsi sul dominio delle cose e non sul dialogo e comunicazione interpersonali. L’ideologia della tecnica pensa l’essere umano come risolto nel circolo della materia: materialismo e naturalismo rappresentano largamente i presupposti antropologici di non poche ricerche. Se l’uomo è nient’altro che materia animata, diventa problematico il valore che può avere ai propri occhi: l’esito non sarà forse una estesa demoralizzazione umanistica? Ed è questa che serpeggia nel soggetto: divenire privo di valore e insignificante a sé stessi e per gli altri.
[1] Un’elaborazione sull’antropologia personalista è svolta nel mio Il Nuovo Principio Persona, Roma, Armando, 2013.
[2] Pascal, Pensées, n. 176, ed. Serini, Mondadori, Milano, 1970, p. 135.
[3] M. Heidegger, “La questione della tecnica”, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1985, p. 5.
[4] Nicomachea, l. VI, c. 4, 1140 a12s. La determinazione aristotelica sembra più rigorosa di quella platonica, in cui il ricorso al termine creazione/poiesis può risultare ambiguo: «Tu sai che creazione (poiesis) è un termine vasto. In effetti per qualsiasi cosa che proceda da ciò che non è a ciò che è, senza dubbio la causa di questo processo è sempre una creazione», Simposio, 205c.
[5] H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso, Torino, Einaudi, 2000, p. 144.
[6] Sulla potenza e impotenza della tecnica vedi i miei La rivoluzione biopolitica. La fatale alleanza tra materialismo e tecnica, Torino, Lindau, 2013, e Una Nuova Partenza. Teologia politica e filosofia della storia, Roma, Armando, 2022 (con riferimenti al transumanesimo e al postumanesimo).
[7] Per maggiori sviluppi vedi Essere e libertà, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 159-165.
[8] Bacone, Novum Organon, L. II, § 52.
[9] «Io credo che il compito affidato all’Europa – compito il meno sensazionale di tutti, ma che nel profondo conduce all’essenziale – sia la critica della potenza…Il compito riservatole non consiste nell’accrescere la potenza che viene dalla scienza e dalla tecnica – benché naturalmente farà anche questo – ma nel domare questa potenza», Europa. Compito e destino, a cura di S. Zucal, Brescia, Morcelliana, 2005, p. 26. A che punto siamo nella critica contro la potenza? Guardini riteneva non solo che in ciò il ruolo dell’Europa sarebbe stato decisivo, ma aggiungeva la necessità per essa del cristianesimo: «L’Europa diventerà cristiana o non esisterà mai più» p. 59. Perché vi sia Europa, deve vivere in essa la figura di Cristo che ha liberato l’uomo europeo (intense in proposito sono le pp. 56-61). «L’immagine europea dell’uomo è determinata nel modo più profondo dal cristianesimo. Riposa sull’influsso dell’azione salvifica di Cristo, che ha sciolto l’uomo dall’incantesimo della natura e gli ha dato un’indipendenza dalla natura e da se stesso, che egli non avrebbe potuto raggiungere sulla via d’uno sviluppo solo naturale perché poggia su quella sovranità verso il mondo in cui si pone Dio stesso» p. 42.