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Intervista a Vittorio Possenti sul “Ritorno alla metafisica”

Intervista a Vittorio Possenti
Ritorno alla metafisica
di Paola Petrignani
Pubblicato su L’Osservatore Romano, venerdì 4 luglio 2025

La metafisica, per il filosofo Vittorio Possenti, già ordinario di filosofia politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è oggi più che mai necessaria. E ritornare, riprenderne il cammino pavimentato da secoli e secoli di storia del pensiero occidentale, dopo un’epoca di abbandoni e assenze, è stato il cuore delle ricerche di una vita. Tali ricerche sono oggi raccolte nei due volumi di Grandezza della Metafisica. Opere teoretiche scelte (Sesto San Giovanni, Mimesis Edizioni, 2025, pagine 1252, euro 55), opus nel quale il filosofo cerca di venire a capo della questione del declino e della rinascita della metafisica, e superare l’impasse odierna.

Perché guardare alla metafisica e addirittura parlare della sua grandezza? Perché riprendere il suo discorso adesso, dopo quello che lei definisce «il proclamato tramonto della metafisica»?

Non ho mai creduto alla corriva diagnosi che ogni metafisica fosse morta. Meglio di me ha espresso tale opinione Gómez Dávila secondo cui la metafisica è stata dichiarata morta così tante volte da doversi considerare immortale. In realtà alcune metafisiche sono state capaci di traversare i secoli, rinnovandosi nella fedeltà alle sue intuizioni più sorgive. Tra queste ritengo che il primo posto spetti alla metafisica dell’essere e dell’ente che poggia sull’asserto innegabile “l’ente è” (senza pregiudizialmente affermarne la necessità) e “che cosa è l’ente?”. Essa venne formulata da Aristotele nella Metafisica (ti to on) ma frequentemente tradotta «che cosa è l’essere?». Sembra che i traduttori abbiano smarrito la differenza ontologica tra ente ed essere, e ciò compromette tutto sin dall’inizio. Non così opera l’Aquinate che 1500 anni dopo ha risposto alla sua domanda introducendo la struttura polare dell’ente quale sinolo di essenza e di atto d’essere. I grandi tomisti del XX secolo hanno ritrovato sulla sua scia l’itinerario essenziale di tale filosofia. Era perciò possibile rimettersi in cammino e affrontare il rigetto della metafisica così forte da un secolo e mezzo.

In un’epoca in cui si è dichiarata la fine della storia, della filosofia, la morte di Dio e il rifiuto dell’idea stessa di verità, dove ha cercato una ripartenza?

La spinta mi venne dal problema del nichilismo, che in quegli anni dominava il dibattito continentale, in particolare in Italia. L’influsso di Nietzsche e di Heidegger appariva intenso e si susseguiva una messe inconsueta di pubblicazioni. La questione mi interpellava direttamente. Optai per una riflessione sul concetto di nichilismo teoretico, e il mio primo compito fu di assegnare un contenuto concettuale a una nozione di nichilismo che echeggiava dovunque (filosofia, teologia, etica, diritto, politica, arte) divenendo un termine inflazionato, capace d’insinuarsi dappertutto, con l’esito facilmente prevedibile di significare tutto e niente. Cercai dunque di elaborare una nozione attendibile di nichilismo teoretico collocandomi nel quadro della filosofia dell’essere e delle sue fondamentali posizioni metafisiche, ontologiche e gnoseologiche. Tale filosofia era sollecitata a esprimere una determinazione di nichilismo e una sua valutazione, prima mai formulate. Occorreva approfondire il suo discorso affinché esprimesse la sua fecondità in situazioni nuove. Riprendere non significa semplicemente ripetere, ma operare un disvelamento delle virtualità inespresse del discorso sull’essere e sull’ente. Metodo che esigeva un lungo confronto con le principali scuole metafisiche moderne, constatandone criticamente la conclusione in ragione sia del diffuso dualismo tra pensiero ed essere (Cartesio e Kant), sia per la loro coincidenza (Hegel e Gentile).

Che cammino ha seguito nel far giocare insieme problema ontologico e problema gnoseologico?

Quello del realismo filosofico, venendo in sintesi a significare che il sapere deve modellarsi sull’essere e non viceversa. Sono stati proposti negli ultimi decenni alcuni “nuovi realismi” a mio parere alquanto incompleti. La tradizione del realismo classico ha tutte le carte in regola per dire la sua sulla conoscenza dell’ente e dell’essere e sul concetto di verità. Oltre all’heideggeriano «oblio dell’essere» si è verificato su altri e più concreti piani un «oblio del realismo» che è risultato fatale per varie scuole. Nel tema del realismo si decide anche sul nesso tra pensiero e realtà (essere): il primum non è il pensiero ma l’essere. È la realtà che pone le condizioni per un pensiero veritativo, non il contrario.

La via giusta si costruisce guardando al passato o si pavimenta inseguendo il nuovo?

Il detto vetera novis augere et perficere, rilanciato da Leone XIII, assume significato e valore in ogni ambito della vita. Qui la filosofia dell’essere e dell’ente uscita dall’atto inaugurale dell’Aquinate ha giocato le sue carte. Diffido delle partenze completamente ex novo, del sortilegio di coloro che dicono partiamo da zero, buttiamo a mare tutto il passato e procediamo. A quali pensatori fare riferimento? Si deve procedere dalla filosofia dell’essere, ma intrecciando le questioni sulla verità, il nichilismo, il male, la libertà, la tecnica, l’inizio e l’ultimo, la discussione si confronta con gli antichi, i medievali in specie con i moderni; Kant, Hegel, Nietzsche, Kierkegaard, Husserl, Bergson, Gentile, Maritain, Heidegger, Habermas, Bontadini, Severino, per valutare quali siano in grado di ispirarci oltre l’impasse odierna. Uno spazio consistente delle Opere è dedicato a questo metodo.

Tra le questioni evidenziate ha citato la tecnica, che sembra permeare il discorso contemporaneo declinandosi fin proprio nell’area del postumano. La metafisica qui proposta può avere un ruolo in tutto questo? Potrebbe allenarci a mantenere gli occhi aperti sulle sfide del futuro?

Volgo lo sguardo alla tecnica e alla volontà di potenza la cui crescita non offre requie, e anzi celebra con retoriche liturgie il disruptive (dirompente e disgregativo) capitalism e le disruptive (dirompenti e disgregative) technologies: la corsa verso l’innovazione e il cambiamento senza sosta come fine in sé. Tale la nuova eresia dell’“ americanismo”, dove l’influsso di Nietzsche è poderoso. Dobbiamo guardare alla volontà di potenza secondo due prospettive. In primo luogo, la volontà di potenza come un fine in sé che si autoalimenta nell’inesauribile cammino verso un perpetuo di più e un dominio sempre maggiore sugli altri e su sé stessi. In secondo luogo, valutare gli effetti gravemente distorsivi della volontà di potenza della tecnica sulla vita politica e sociale: accentramento di potere in poche mani, crescente irresponsabilità dei “produttori”, manipolazione dell’informazione, controllo sociale asfissiante, interventi manipolatori sulla persona. La metafisica cui ci siamo riferiti chiarifica in maniera decisiva la questione. Per tale metafisica, la volontà di potenza non può trasformare l’essenza umana, che appartiene all’ambito del necessario. Ovviamente ci sta già provando e ci proverà sempre di più, ma andrà incontro alla disfatta: il guaio è che in questo tentativo senza esito saranno i singoli e la vita sociale a dover sopportare grandi sfide e danni, perché si tenteranno vie e percorsi senza uscite (postumano, transumano, cambio dell’essenza umana), ma che graveranno sulle persone umane. A mio parere la teologia dei vizi capitali non mi sembra in pari per quanto concerne la volontà di potenza che difficilmente può essere ricondotta al vizio della superbia.

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