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Diritti Umani – Intervista a Vittorio Possenti

a cura di Luca Didonato

Domanda: Professor Possenti, la riflessione sui diritti umani accompagna gran parte della sua attività di studioso, che si svolge alternando l’esplorazione di temi metafisici fondativi, radicati nel pensiero classico greco-romano e medievale, all’approfondimento di problemi di filosofia politica e del diritto, attenti alle suggestioni della modernità e della contemporaneità. Come è nata in lei questa duplice attenzione?

Risposta: La questione dei diritti umani era in me latente, e cominciò a emergere nel 1977 quando proposi alla casa editrice Vita e Pensiero (Milano) di rieditare due opere di Maritain già stampate dalle Ed. di Comunità negli anni ‘50, ma esaurite da tempo: I diritti dell’uomo e la legge naturale e Cristianesimo e democrazia, entrambe del 1942. La proposta fu accolta e per il primo volume preparai un’introduzione. Quasi contemporaneamente si manifestò la forte spinta sui diritti da parte di Giovanni Paolo II e in generale di un ampio schieramento internazionale. Successivamente su impulso della Santa Sede e dei Paesi dell’orbita sovietica si svolsero a Budapest, Klingenthal e Mosca diversi incontri, cui partecipai, sui diritti umani tra studiosi cattolici e marxisti: ritornante era il motivo della libertà religiosa e poco dopo della casa comune europea.

Le sollecitazioni pratico-politiche della ricerca non sono disgiunte nei miei scritti da una riflessione più approfondita, per elaborare un’adeguata giustificazione dei diritti e dei doveri. Da numerosi anni manifesto un’attenzione critica nei confronti della concezione del Diritto del positivismo giuridico radicale (e in specie della dottrina pura del diritto e della ragion pratica di Kelsen), accompagnata dall’istanza di elaborare linee ricostruttive tanto della filosofia politica dopo il non breve periodo del comportamentismo e del positivismo, quanto della filosofia del diritto tentata dal nichilismo in sue espressioni.

La cura per il sapere speculativo (metafisica, ontologia, gnoseologia) è stata per me fondamentale sin dall’inizio, e permane tuttora come compito primario: nella metafisica e nella religione si trova la vita profonda dello spirito e dei popoli, e forse nessuna età ne ha bisogno come la nostra che si dichiara postmetafisica e antimetafisica, e che può rimanere preda del nichilismo teoretico. In anni recenti ho sostenuto che il ciclo filosofico moderno nel suo versante antirealistico da Cartesio a noi si sia concluso, e che la filosofia dell’essere possa favorire una nuova partenza del pensiero. Per filosofia dell’essere intendo una grandiosa tradizione che, partendo dai Greci e in specie da Aristotele, raggiunge un punto di apogeo con l’incremento operatone dall’Aquinate e dai grandi tomisti del XX secolo.

 

D.: Secondo lei teorie ereditate dal pensiero classico, come il realismo gnoseologico e ontologico, la stabilità delle essenze/nature o il concetto di legge naturale, possono gettare luce ancora oggi sul delicato problema dei diritti dell’uomo?

R.: Ne sono persuaso. Mi riferisco in specie alla legge naturale che è legge morale della natura umana, e non legge naturale nel senso delle leggi scoperte dalla fisica. Essa si esprime in inclinazioni vitali fondamentali, si apprende attraverso un percorso molto accidentato, è conosciuta per inclinazione, simpatia e connaturalità, non primariamente mediante un argomentazione teoretica, che pur rimane necessaria a titolo confermativo. Maritain ha approfondito questi aspetti in modo prezioso, dando l’attenzione dovuta a tali forme di conoscenza, ignorate dal razionalismo moderno da Cartesio in poi, e in certo modo recuperate da correnti della fenomenologia.

La conoscenza delle implicazioni della legge naturale inscritta nell’essere umano non terminerà mai, per cui – contrariamente ad un’opinione quasi totalitaria che la considera un dato morto e inutile, un residuo di età barbare e dogmatiche  – essa è intrinsecamente dotata di forza dinamica e di capacità “sovversiva” dello status quo (su ciò vedi Antigone, san Paolo ai Romani, Tommaso d’Aquino, ecc).

Indubbiamente questa strada incontra notevoli difficoltà per il diffuso rifiuto del pensiero ontologico e universalistico. Incide l’ideologia postmetafisica, secondo cui la metafisica è stata distrutta per sempre in Europa, e mai ne potrà rinascere un’altra. Nonostante questa decapitazione della filosofia, ridotta all’etica e affini, lo stesso Habermas, che si annovera tra i maggiori fautori dell’indirizzo postmetafisico, non congeda l’elemento dell’universale. Anzi ad un certo punto del suo itinerario ha scritto Il futuro della natura umana. I rischi dell’eugenetica liberale, incamminandosi su una strada molto impegnativa per un soi-disant postmetafisico, in quanto ben pochi concetti della storia della filosofia sono tanto carichi di metafisica come quello di natura umana e della sua universalità.

 

D.: L’espressione stessa “diritti dell’uomo” è però retaggio dell’epoca moderna. Si è infatti imposta all’attenzione del mondo occidentale con la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, al principio della Rivoluzione francese. Quali sono i concetti filosofici che hanno preceduto e accompagnato questa dichiarazione? Possiamo coglierne luci e ombre?

R.: Un esame storico-analitico sui suddetti concetti filosofici e il loro svolgimento richiederebbe non poco spazio. In prima istanza è possibile guadagnare un ingresso al tema esaminando i concetti primari cui si sono riferite le principali dichiarazioni moderne, senza mancare di attribuire il dovuto rilievo alla Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776. Essa parte dalla triade “vita, libertà, perseguimento della felicità”, in cui si esprimono i diritti supremi. Nel 1789 si sottolineano la libertà e l’eguaglianza: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”. Questi ultimi sono individuati in una quaterna: la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Merita sottolineare come elemento singolare che non compaia il diritto alla vita.

Nella Dichiarazione universale del 1948 l’art. 1 riformula in maniera più estesa quanto affermato nel 1789: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Più estesa in quanto si  aggiunge il concetto primario di dignità, al quale da allora si è fatto amplissimo ricorso. Segue l’art. 3 in  cui i diritti primari sono vita, libertà, sicurezza della propria persona. Quest’ultimo diritto prende il posto di quello del 1776 concernente il perseguimento della felicità, e recupera la “sicurezza” del 1789 forse perché il mattatoio della seconda guerra mondiale reclamava imperiosamente la difesa della persona da uccisioni, torture, trattamenti psichici e corporei disumani. In tale situazione sarebbe parso quasi derisorio riferirsi alla felicità.

Prima del 1776 si deve ricordare l’elaborazione di J. Locke e del liberalismo che ne proviene secondo cui i diritti naturali primari sono: vita, libertà, uguaglianza civile e proprietà. Si parla appunto di diritti naturali e non di diritti dell’uomo come accadrà più tardi.

 

D.: La Dichiarazione universale dei diritti umani dell’ONU del 1948, e i successivi sforzi per tradurla in pratica, si inseriscono a loro volta in un contesto profondamente mutato. Cosa ha consegnato il pensiero contemporaneo alla riflessione sui diritti umani?

R.: L’enorme quantità di scritti sui diritti rende difficile orientarsi. In estrema sintesi direi che il pensiero contemporaneo ha sottolineato due nuclei: dapprima l’idea che dobbiamo prendere sul serio i diritti umani, per armonizzarli tra loro e non farli entrare in conflitto sin dall’inizio (questo è un compito molto arduo in cui è facile assolutizzare uno o più diritti a scapito di altri, come a mio parere è successo con un’enfasi sproporzionata sui diritti di libertà); poi che dobbiamo estenderne la garanzia verso Paesi che meno li adottano e li mettono in pratica, e questo si può ottenere positivizzando i diritti e dando loro garanzia giuridica nazionale e internazionale. Si comprende bene che i diritti siano diventati un’agenda politica fondamentale.

Viviamo da oltre mezzo secolo nell’età dei diritti che in Occidente ne ha provocato un’inflazione che sembra inarrestabile. Questa situazione ha condotto autori e gruppi di influenza a parlare con buoni motivi dell’età dei “diritti insaziabili” e del silenzio sui doveri. E’ ormai diffusa l’idea che occorra ripensare a fondo l’età dei diritti e la nozione stessa di diritto che può diventare spesso un’arma puntata contro l’altro e il debole. In Italia due libri usciti contemporaneamente (G. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi, Torino 2017, e V. Possenti, Diritti umani. L’età delle pretese, Rubbettino, Soveria 2017) denunciano l’elefantiasi dei diritti. Essi hanno recato giovamento ad una parte modesta dell’umanità, dove i desideri e le pretese continuano a crescere, spesso a spese degli svantaggiati. Non sono i nemici dichiarati dei diritti, oggi pochi, coloro presso cui cercare le maggiori responsabilità, ma coloro che da posizioni di forza e di potere usano il discorso dei diritti a loro vantaggio. Data l’interconnessione globale, questo atteggiamento provoca danni anche molto lontano dal luogo in cui vivono coloro che strumentalizzano i diritti in loro favore. Nessun essere umano dotato di senso comune e di coscienza può pensare di ottenere i propri diritti – di questo stiamo parlando e non di mere pretese – senza mettere in conto la sua appartenenza a una società e senza valutare la ripercussione delle richieste su di essa.

Evitare il discorso meramente retorico sui diritti umani appare oggi una vera necessità,  confidando che il 70mo anniversario della Dichiarazione universale non divenga una vuota celebrazione di quell’evento. E’ tempo di aprire una prospettiva in cui il diritto perda o attenui il suo carattere offensivo, stringa un’alleanza con il dovere, sappia distinguere tra pretesa e diritto, e pratichi l’ingiunzione del dovere e la sanzione per il dovere non adempiuto. Numerose e qualificate voci si sono levate da anni per richiamare doveri e responsabilità dell’uomo come tale e in specie verso  le generazioni future: i documenti ricordati in nota, che rimontano a decenni fa, dovrebbero diventare un riferimento costante della nostra riflessione[1].

Va considerato che non è per nulla indifferente se si parte dai diritti o dai doveri. Prendere le mosse dai primi implica il mettere l’accento sulle mie esigenze da far valere, intraprendere una lotta in cui altre esigenze vengono messe da parte, e dove i limiti di compatibilità generale sono facilmente tralasciati. Partire dai doveri implica tener conto di questi limiti, vedere le proprie esigenze in rapporto a quelle altrui, considerare il quadro generale e ciò che esso consente o meno, interrogarsi se ciò che faccio per il bene comune è paragonabile con quanto ricevo. I diritti, presi da soli, fanno emergere i forti e i prepotenti anche in presenza di limiti giuridici posti dalla legge, mentre il sospetto apriorico gettato sui doveri proviene dal fatto che ci ricordano esigenze scomode, e dall’assunto che avere dei doveri significhi un attentato alla libertà e all’autonomia degli individui. Il dovere preso sul serio significa né più né meno aderire al principio responsabilità: essere chiamati a rispondere per quello che si fa.

 

D.: Ritiene necessaria un’integrazione della Dichiarazione del 1948 e in che senso?

R.: Il 70mo della Dichiarazione universale potrà essere una valida occasione per un ripensamento generale. Vari segnali lasciano sperare che il 2018 non passi invano. Non mi attendo certo una nuova dichiarazione, ma la diffusa consapevolezza che occorrerà in un futuro non lontano un’integrazione del dettato del 1948 secondo due linee: un suo ampliamento in ordine ai doveri, quasi assenti allora; una specificazione per quanto concerne l’ecologia, la questione della responsabilità verso le generazioni che verranno, l’esaurimento delle risorse, il problema della pace e degli armamenti nucleari. Su tutti questi temi vale un imperativo fondamentale anteriore a qualsiasi dichiarazione di diritti, che si può formulare con le parole di H. Jonas: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra, oppure, tradotto in negativo, ‘Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita’ “[2]. La responsabilità verso il futuro è già enunciata nel Preambolo della Dichiarazione universale: “preservare le generazioni future dal flagello della guerra”, e va oggi riferita alle nuove necessità di cui si è appena detto.

Abbiamo sotto gli occhi smodate rivendicazioni di grandi Potenze secondo cui il proprio Paese e le sue pretese debbano comunque venire collocate al primo posto. Non si può più parlare in modo assoluto del diritto al proprio stile di vita, se ciò implica – come implica – un’aggressività senza responsabilità verso il consumo delle risorse e una sorta di imposizione del proprio stile (consumistico). Chi ragiona così sembra ignorare la differenza tra beni esclusivi e beni inclusivi e i diritti e doveri corrispondenti. I primi sono necessariamente limitati perché implicano consumo, non rinnovabilità, e il conflitto per la loro acquisizione; i secondi risultano illimitati in quanto la loro fruizione non comporta il loro consumo o distruzione (pensiamo ai beni della cultura, dell’arte, dello spirito), per cui possono essere compartecipati indefinitamente[3].

Beni comuni significa che sono di tutti e che a tutti devono appartenere, e che dunque non sono passibili di appropriazione privata: aria, acqua, mare, energie disponibili sono di tutti e nessuno può farle proprie, consumarle e inquinarle a suo piacimento. Sono un bene comune universale, che è molto di più di un bene pubblico e ancor più di un bene privato: un bene privato è di uno soltanto, un bene pubblico è tale entro una società politica ed è perciò di molti, un bene comune è di tutti indistintamente.

Noi non pensiamo più al futuro come al “sol dell’avvenire” entro l’ideologia del progresso e della perfettibilità umana; vi pensiamo con preoccupazione per noi, per i nostri figli e in generale in ordine alle generazioni future: che cosa accadrà? Questo fa sorgere  il sentimento nuovo di una responsabilità e di un dovere che si era molto affievolito nell’epoca dei soli diritti e della società opulenta e consumistica. Noi ci avvantaggiamo a danno delle generazioni future in quanto consumiamo forsennatamente risorse che vengono loro sottratte. Dobbiamo porre un argine a questo andazzo, e lo possiamo e dobbiamo fare puntando la riflessione sui doveri e responsabilità come qualcosa di originario, qualcosa che è dotato di coerenza propria e di un proprio rilievo autonomo. L’obbligo dice: tu devi fare e tu non devi fare, mentre il diritto slegato da ogni altro elemento finisce per dire: io voglio. L’obbligo deve entrare nel diritto dello Stato e in quello internazionale come limitazione delle pretese soggettive e come autonoma fonte di giustizia, anche là dove non vi sono soggetti presenti che possano porsi in giudizio, come le generazioni future.

 

D.: Dalla lettura dei suoi libri mi pare emergano due temi particolarmente significativi per il presente: la distinzione fra diritto e desiderio, e il grande tema della unificazione politica del mondo. Come mai diritto, bisogno e desiderio non necessariamente coincidono? Questa distinzione quali sfide pone per la pratica attuale dei diritti umani?

Il riconoscere che talvolta un interesse, un bisogno o un desiderio non costituiscono di per sé un diritto può costare sofferenza agli individui o alle categorie portatrici di quell’interesse, bisogno o desiderio. Come salvaguardare, da un lato, le esigenze della giustizia, per la quale non ogni richiesta è di per sé dovuta e giusta, con quelle dell’uguaglianza delle opportunità?

R.: All’unificazione politica del mondo dedico attenzione più avanti. Diritto, desiderio e bisogno non coincidono: si può desiderare di tutto senza aver bisogno di nulla. Inoltre il desiderio può essere legittimo o meno: si può desiderare il male altrui senza che ciò sia un diritto; si possono desiderare carriere favolose e ricchezze elevate senza che ciò stabilisca un diritto, ossia qualcosa che è necessariamente dovuto ad un soggetto. Un discorso analogo vale per il cosiddetto “diritto al figlio” con la fecondazione eterologa e/o con la maternità surrogata, in cui manifestamente si violano diritti primari di altri: il diritto del minore di conoscere le sue origini; quello della madre biologica di non essere considerata uno strumento di produzione, e nuovamente quello del figlio di non valere come un oggetto che viene acquistato. Ugualmente si misconoscono i doveri dei committenti di non trattare la donna come uno strumento e il figlio come un pacco-dono ordinato. In tutto ciò accade una mercificazione di rapporti umani basilari, di per sé estranei all’ambito della mercificazione, che vengono invece gestiti entro un mero scambio economico. In senso proprio non vi sono diritti sulle persone ma sulle cose, sugli oggetti; si possono vantare diritti sulle persone solo se queste sono viste come merci che possono essere acquistate ad un certo prezzo. Dove tutto è sconsacrato, tutto diventa merce.

Un campo tragico è quello dell’aborto, in cui in alcuni Paesi e in istanze istituzionali giuridiche si vorrebbe introdurre un diritto di aborto illimitato, rivendicato come diritto universale della donna (sotto veste della sua completa autodeterminazione), che cancella il diritto incondizionato alla vita del feto. Sembra evidente che una società di questo genere, se non adotta urgenti correzioni, non possa che evolvere verso la guerra permanente contro i deboli e verso il trionfo dell’ingiustizia.

Il rapporto tra diritto e desiderio è particolarmente delicato nelle odierne società capitalistiche e sconsacrate dell’Occidente in cui l’estrema sollecitazione del desiderio di beni materiali, di immagine, di successo, di evasione, operata da un sistema mediatico, pubblicitario e informatico spinto oltre ogni limite, scatena l’io e convince le persone di aver diritto a tutto. Emerge quanto profondamente manipolabili siano oggi moltitudini di soggetti che pur credono di essere autonomi, autodeterminati e indipendenti. Il capitalismo mondiale contemporaneo e il mercato che gli corrisponde, con le sue forti propaggini finanziarie in cui lo scopo del denaro e generare altro denaro, e tutto è ridotto a merce, sono incomprensibili senza l’enorme sollecitazione e pressione sul desiderio che esercitano sui popoli, e senza i quali si avviterebbero su se stessi.

Quali forme di vita buona promuovono le società di oggi? Il sistema mediatico e pubblicitario che dalle società capitalistiche si è ormai travasato dovunque, non presenta icone di vita buona, ma modelli in cui desiderio e consumo si danno la mano. La nuova religione secolare del desiderio tramuta tutto ciò in cui aspira in diritto; e a questa corrente non si può opporre un’istanza libertaria ed egolatrica, che anzi la favorisce, ma un assunto etico e personalistico.

Il criterio dell’uguaglianza delle opportunità è delicato e difficile da definire. Si può intendere come uguaglianza dei punti di partenza educativi nel senso che i giovani ricevano una preparazione sufficiente per muoversi nella società e svolgervi un compito utile. L’eguaglianza delle opportunità si può anche intendere come l’assenza di barriere (formali e non) che impediscono alle persone più capaci di accedere alle professioni, agli impieghi e agli incarichi migliori. Non può significare uguaglianza dei punti di arrivo, a meno che si tratti di un egualitarismo oltranzista che intende perseguire l’eguaglianza di benessere, di reddito o di ricchezza tra tutte le persone. Tra le opportunità dei cittadini di uno stesso Paese sono ineguaglianze moralmente giustificabili quelle che dipendono dalle loro decisioni e dalla loro condotta a fronte di un insieme eguale di opportunità iniziali e, in misura ridotta, quelle che dipendono da differenze nelle loro capacità.

Consideriamo infine il problema della felicità cui noi occidentali teniamo molto: esiste un diritto esigibile alla felicità? Occorre distinguere tra diritto alla felicità, e diritto al perseguimento della felicità: il primo non esiste, è una parola vuota e ingannevole (la felicità non è un diritto ma un’aspirazione), il secondo rappresenta tale aspirazione in sé legittima e può essere considerato un diritto. Che significato può avere il diritto alla felicità per una madre che vede il proprio bambino ucciso da una guerra, da violenze, dalla fame? Essa chiederà giustizia per il figlio e per sé. In genere gli oppressi non chiedono felicità, ma giustizia.

 

D.: Dopo la costituzione dell’ONU quali prospettive, ostacoli e criticità presenta l’idea di una unificazione politica del mondo?

R.: Dal 1945 in avanti la situazione si è evoluta, e trattati e convenzioni internazionali coprono molte dinamiche all’insegna di accordi volontari. L’unificazione del mondo sotto un’autorità politica mondiale garante della pace e dei diritti rimane però lontana: l’Onu è un’associazione di Stati, che perlopiù rispecchia gli interessi dei grandi Stati, che non intendono rinunciare alla sovranità e a far prevalere la loro volontà. Tutto ciò ha una rappresentazione plastica nel diritto di veto delle cinque potenze vincitrici[4]. Per l’essenziale viviamo tuttora in una situazione di anarchia o di disordine strutturale, cui necessariamente vanno incontro coloro (gli Stati) che interagiscono reciprocamente senza governo comune, e che anzi si lasciano guidare quasi solo dalla ragion di Stato e dal funesto mito della sovranità. Esso assume l’interesse particolare di uno Stato come la legge suprema della sua attività, in specie nelle sue relazioni con gli altri Stati e nella gestione della guerra.

Appare irrealistico sperare in tempi prevedibili in una riforma profonda e per meglio dire in una rivoluzione dell’Onu che la legittimi come la sede di un’autorità politica tendenzialmente planetaria, capace di oltrepassare la sovranità degli Stati e di diventare sede di una politica mondiale, di forze di polizia a raggio mondiale e di una giurisdizione obbligante. Negli snodi decisivi la sovranità statuale si mantiene fortissima e le vicende degli ultimi vent’anni mostrano che spesso l’Onu ha avallato ciò che interessava alle superpotenze, o è stato scavalcato quando ha rappresentato un ostacolo alle loro mire, in specie per la questione della guerra preventiva. Rimane certo possibile la strada del multipolarismo e degli accordi di pari livello, purtroppo non decisiva, perché l’accordo spesso può essere disdetto secondo gli interessi di quello o quello Stato (si pensi all’accordo sulle emissioni di anidride carbonica).

 

D.: Il futuro dell’Onu appare fortemente connesso con la corsa agli armamenti, la questione nucleare e la capacità che esso avrà (o meno) di intervenire efficacemente in merito. Può in questo snodo vitale la Chiesa cattolica offrire un apporto di primo piano?

R.: Indubbiamente. L’azione della Chiesa è stata energica e costante per sostenere la sospensione della corsa agli armamenti, in specie nucleari, e la loro riduzione (trattato di non proliferazione) che, pur prevista dall’art. 6 del Trattato di non Proliferazione del 1968, non è quasi mai iniziata. Al contrario, dopo una modesta riduzione negli anni ’90, assistiamo ora a una modernizzazione di queste armi che aumenta la loro potenza nel contesto di un aggravamento delle tensioni nelle relazioni internazionali.

Dinanzi a questa situazione una quota della società mondiale ha innalzato il traguardo, ponendo come obiettivo ultimo l’abolizione delle armi nucleari.   L’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 dicembre del 2016 ha convocato una Conferenza internazionale che si è conclusa il 7 luglio 2017 con l’adozione di un “Trattato sul divieto delle armi nucleari”, giuridicamente vincolante, che entrerà in vigore dopo la ratifica di almeno 50 Stati (il Vaticano ha già provveduto in merito). Esso prevede anche “trattative su misure efficaci per la cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare”. Si dice inoltre che è proibita la “minaccia d’uso” delle armi, raccogliendo così molte delle istanze della società civile internazionale. Viene in tal modo bocciata la logica della deterrenza, cioè l’equilibrio del terrore.

Per apprezzare la razionalità morale e politica dall’insegnamento della Chiesa dalla fine della seconda guerra mondiale, è sufficiente  richiamare alcuni discorsi dei Papi e la posizione del Concilio. Sembra infatti che il primitivo obiettivo vertente sul divieto di impiego delle armi nucleari, stia evolvendo verso l’idea che sia moralmente inaccettabile anche il loro possesso.

Il 19 ottobre del 1953 Pio XII, ricevendo i partecipanti al convegno dell’Ufficio Internazionale di Documentazione di Medicina Militare, dichiarò: “Noi abbiamo ancora espresso il desiderio che si punisse sul piano internazionale ogni guerra che non è richiesta dalla necessità assoluta di difendersi da un’ingiustizia gravissima riguardante la comunità, allorché non si può impedirla con altri mezzi, ed è pertanto necessario farla, sotto pena di dar man libera alla violenza brutale e alla mancanza di coscienza nelle relazioni internazionali. Non è dunque sufficiente di doversi difendere da una qualsiasi ingiustizia per ricorrere al metodo violento della guerra. Quando i danni da questa causati non sono comparabili con quelli della ‘ingiustizia tollerata’, si può avere l’obbligo di ‘subire l’ingiustizia’!”.

Dieci anni dopo fa eco la Pacem in terris: “Riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia” (aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda, n. 67).

Il tema è ripreso subito dopo dal Concilio che nella Gaudium et Spes (paragrafi 79-82) tratta del dovere di mitigare la guerra, dei limiti della legittima difesa, della guerra totale, della corsa agli armamenti, della condanna assoluta della guerra e dell’azione internazionale per evitarla. Per il discorso qui svolto è necessario segnalare che il documento non ritiene la legittima difesa un criterio assoluto, quando le azioni militari siano quelle di una guerra totale con l’impiego delle armi scientifiche. E si aggiunge: “ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato” (n. 80).

In discorsi e messaggi papa Francesco ha favorito l’idea che ormai è il possesso stesso delle armi nucleari ad essere immorale.  “L’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario. Un approccio concreto dovrebbe promuovere una riflessione su un’etica della pace e della sicurezza cooperativa multilaterale che vada al di là della “paura” e dell’“isolazionismo” che prevale oggi in numerosi dibattiti. Il conseguimento di un mondo senza armi nucleari richiede processi di lungo periodo, basati sulla consapevolezza che “tutto è connesso”, in un’ottica di ecologia integrale (cfr. Laudato si’, 117, 138). Il destino condiviso dell’umanità richiede di rafforzare, con realismo, il dialogo e costruire e consolidare meccanismi di fiducia e di cooperazione, capaci di creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari”[5]. “Recentemente, ad esempio, attraverso una storica votazione in sede ONU, la maggior parte dei Membri della Comunità Internazionale ha stabilito che le armi nucleari non sono solamente immorali ma devono anche considerarsi un illegittimo strumento di guerra”[6].

 

D.: Un altro tema che accompagna spesso i suoi scritti, data anche la sua formazione scientifica, è quello dei rapporti fra scienza e filosofia. Possono le scienze naturali o sociali fondare nuovi diritti? È possibile una relazione di fondazione epistemica fra i metodi delle scienze empiriche e la posizione prescrittiva di un comportamento come giusto o doveroso? Esiste un rapporto fra osservazione empirica, analisi statistica e formulazione di regolarità fra fenomeni, da una parte, e affermazione di un dover-essere dall’altra?

R.: Questo punto richiede una particolare attenzione per la crucialità dei temi implicati. Dapprima occorre praticare una sorta di digiuno lessicale e concettuale nei confronti di non poco linguaggio filosofico della modernità, che ha usato ed abusato dei termini di fondazione e di rifondazione, in specie a partire da Kant (Fondazione della metafisica dei costumi). In quanto realista filosofico ritengo che la ragione umana per l’essenziale non fondi alcunché, ma riconosca (Vedi in merito il mio Le ragioni della laicità, Rubbettino 2007). Sebbene la distinzione sembri sottile, una cosa è produrre una fondazione dei diritti umani, un’altra cercare una loro giustificazione, in cui quest’ultima viene pensata presente nella realtà e nell’essere umano.

Preferirei perciò parlare di giustificazione dei diritti umani: quella a mio parere migliore riposa su’integra concezione dell’uomo inteso non solo come appartenente all’ambito della vita animale e corporea, e neppure come mero punto di incrocio di rapporti sociali (diversamente dunque dalla sesta tesi di Marx su Feuerbach: “l’essenza umana è l’insieme dei rapporti sociali”), e su alcuni elementi quali l’esistenza di una natura umana stabile, identificata dalla differenza specifica che è una differenza ontologica, per cui il soggetto umano differisce dall’animale ed è dotato di uno speciale valore ontoassiologico.

Né una fondazione e neppure una giustificazione dei diritti umani possono provenire dalle scienze sociali e tanto meno da quelle naturali. Le prime, pensiamo all’economia, la sociologia, l’antropologia culturale, possono fornire elementi preziosissimi per indicare situazioni di fatto e per indirizzare a riflettere sui diritti, non per operarne una giustificazione che richiede il passaggio dall’elemento empirico a quello etico e normativo.

Quanto al nesso fra osservazione empirica, analisi statistica e formulazione di regolarità fra fenomeni, da una  parte, e affermazione di un dover-essere dall’altra, la questione non è univoca. Il furto ad esempio è empiricamente abbastanza raro, e perciò il divieto di rubare sembra esercitare un influsso. D’altro canto nel rapporto tra grandi Stati o imperi nel corso della storia, riscontriamo una forte regolarità empirica concernente lo scontro tra potenze in lotta per l’egemonia, inteso come un fatto naturale, mentre il senso morale urge affinché venga risparmiata il più possibile la sventura della guerra. In tal caso è intervenuto un progresso morale che condanna la guerra intesa non più come una fatalità naturale, ma come una scelta.

 

D.: qual è secondo lei la direzione in cui bisognerà impegnarsi di più per garantire un avvenire e una speranza alla pratica dei diritti umani?

R.: Dovremmo parlare di un’etica della responsabilità e del futuro nel senso in cui ne diceva H. Jonas. Per dare senso al discorso sin qui svolto formulerei una lista di obblighi per gli esseri umani presenti e futuri: I) Non dimenticare i doveri; II) Ridefinisci costantemente la figura dell’altro; III) Non abbandonare la differenza specifica tra uomo e animale[7]; IV) Opera per rendere il principio persona mondiale; ancora oggi immensi paesi non lo ritengono primario; V) Poni un limite alla potenza della tecnica, la quale è una realtà profondamente ambigua; VI) Tutela l’ambiente.

Una considerazione ontoassiologica dei diritti umani dovrebbe condurre ad una migliore integrazione tra di loro nel senso di equilibrare i diritti dei forti con quelli dei deboli e di comprendere lo statuto dell’esser altro, che rimane un nucleo dolente: vi sono altri reali che per vari motivi non sono riconosciuti come tali e che difficilmente hanno una rappresentazione sociale adeguata. In questo come in altri casi la comunicazione sociale è preziosa purché non a senso unico, ossia evitando di puntare sulle preferenze soggettive dell’io autocentrato. Nell’ambito spirituale ed etico-politico dell’Occidente si fa ampio ricorso alle preferenze, spesso perché manca un confine sufficientemente chiaro tra loro e i diritti-doveri reali.

Le preferenze non sono all’altezza dei problemi quali quelli posti dalle biotecnologie. Tra i vari ricordo l’adozione di tecniche di potenziamento cognitivo, fisico, psichico che possono creare non solo problemi al singolo ‘uomo aumentato’, ma in specie all’uguaglianza tra gli esseri umani, quando (e la cosa è fattibile) alcuni soggetti e alcuni gruppi o popoli impiegano il potenziamento per sopraffare gli altri non potenziati.

 

D.: Quali le possibilità di cooperazione in un mondo diviso e di un’intesa pratica sui diritti (e doveri) umani?

R.: La questione può essere trattata alla luce del discorso di Maritain alla Conferenza internazionale dell’Unesco, tenuta a Città del Messico nel novembre 1947 quando la guerra fredda era già iniziata e pochi mesi prima del blocco di Berlino (giugno 1948). Il titolo del discorso è perfettamente chiaro: “Possibilità di cooperazione in un mondo diviso”. Il filosofo era allora a capo della delegazione francese. Le divisioni di allora erano in parte diverse da quelle di oggi, eppure il metodo di Maritain conserva validità.

Tenendo conto delle differenti giustificazioni filosofiche dei diritti umani, Maritain ritenne che in sede di preparazione della Dichiarazione Onu si fosse arrivati ad una buona sintesi tra diverse prospettive e giustificazioni che raggiunsero allora, nelle straordinarie condizioni storiche del 1947-48, un consenso pratico abbastanza esteso. Egli osservò: “Le giustificazioni razionali sono indispensabili e nello stesso tempo impotenti a creare un accordo fra gli uomini. Sono indispensabili poiché ciascuno di noi crede istintivamente alla verità e non vuol dare il proprio consenso se non che a ciò che ha riconosciuto come vero e razionalmente valido. Ma le giustificazioni razionali sono impotenti a creare un accordo tra gli uomini sono fondamentalmente diverse e perfino opposte”, in quanto le tradizioni filosofiche da cui derivano sono in conflitto[8]. Un cristiano e un razionalista daranno giustificazioni dei diritti umani diverse (“e Dio mi guardi dall’affermare che non importa sapere chi dei due abbia ragione! Importa anzi in maniera essenziale”), eppure potranno trovarsi in accordo su un certo numero di diritti basali, quali quelli della Dichiarazione del 1948.

L’elemento su cui fa perno il suo discorso è la finalità pratica dell’Unesco (e dell’Onu). Ciò favorisce la ricerca di un accordo in seno alla diversità, che comporti principi comuni e un pensiero pratico comune: “l’accordo vi si può compiere spontaneamente, non sulla base di un comune pensiero speculativo, …ma dell’affermazione di un medesimo complesso di convinzioni che dirigano l’azione”[9].

L’autore fa cenno all’ideologia pratica e ai principi di azione fondamentali implicitamente riconosciuti, allo stato vitale se non allo stato di formulazione della coscienza, dai popoli liberi, ritenendo che in essi si trovi “una specie di legge comune non-scritta, al punto di convergenza pratico delle ideologie teoriche e delle tradizioni spirituali più diverse” (ivi). Tali principi pratici “costituiscono una specie di carta indispensabile per una efficace azione comune, e che sarebbe molto importante formulare, per il bene e il successo dell’opera di pace…” (p. 39). Maritain sostiene che tale carta sia ravvisabile nella futura dichiarazione universale: “Ritengo per questo che una delle più grandi opere intraprese dalle Nazioni Unite sia questa nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo che l’Unesco contribuisce a redigere” (p. 40).

In Il contadino della Garonna (1966) Maritain riprende vent’anni dopo il discorso del 1947, citandolo ampiamente nei suoi passaggi fondamentali, compreso quello in cui elenca le condizioni basilari che rendono concepibile e fruttuoso un accordo pratico tra uomini di diverse visioni del mondo[10]. Aggiunge che il metodo dell’accordo pratico, suggerito in primo luogo per raggiungere la pace, può e deve essere cercato anche là dove occorra raggiungere obiettivi di grande rilievo per il bene umano. Viene ribadita la posizione secondo cui le opposizioni a carattere teoretico non rendono impossibile collaborazioni pratiche, senza di cui si scatenerebbero guerre di ogni tipo. Precisa inoltre che una deviazione in senso opposto (ossia quella del relativismo in cui tutto si equivale) sarebbe altrettanto grave e anche più catastrofica, perché finirebbe per mettere in secondo piano la verità stessa, e per tralasciare o dimenticare le nostre convinzioni speculative (p. 110).

A distanza di 70 anni aggiungerei che l’accordo pratico sulla tavola dei diritti è a mio parere diminuito in rapporto a vari fattori: l’ermeneutica libertaria dei diritti e quella cristiano-personalista tendono a differenziarsi; sono comparsi nuovi ‘altri reali’ a cui allora non si pensava; il richiamo alla responsabilità e ai doveri è tuttora molto manchevole quasi ovunque; gli sviluppi tecnologici e biotecnologici pongono problematiche che richiedono un approfondimento filosofico primario, che la prima corrente non riesce ad offrire. Forse meno arduo sarà l’accordo su clima e ambiente, nonostante le difficoltà presenti e la renitenza di grandi Paesi, mentre impervio appare il cammino verso il disarmo nucleare e il riconoscimento dell’illiceità del possesso di armi nucleari.

Aggiungo infine alcune considerazioni sulla drastica divaricazione tra comprensione libertaria e individualistica e comprensione cristiano-personalistica dei diritti. Il liberalismo filosofico e teologico e il libertarismo attuali esercitano una crescente influenza sulla concezione dei diritti umani, oggi vincente in Occidente, che provoca un costante attacco all’idea stessa di comunità, al personalismo ontologico e relazionale, al bene comune, famiglia e giustizia; prevale il detto ‘io sono mio’ e l’assunto per cui ogni uomo è un’isola. Vi è urgente bisogno di un ripensamento critico da parte del pensiero personalista dell’idea libertaria dei diritti, la quale ha dalla sua le maggiori potenze dell’epoca: la tecnica in generale, le tecnologie della vita, larga parte dell’immenso schieramento mediatico e, last but not least, un impiego distorto del criterio di non discriminazione. Questo nucleo merita uno specifico nota bene. A mio avviso accade un ricorso inflazionato e assolutizzato a tale criterio nell’attribuzione dei diritti, talvolta equiparando situazioni che non lo sono: ne  segue la violazione del principio di giustizia che richiede di non pareggiare tutto, bensì di trattare ugualmente cose eguali e diversamente cose diverse[11].

 

[1] Sulla questione dei doveri e delle responsabilità vedi “Dichiarazione sulle responsabilità delle generazioni presenti verso le generazioni future” (Unesco, novembre 1997), in un preambolo e 12 articoli che trattano dei bisogni delle generazioni future, della perpetuazione dell’umanità, della preservazione della terra, della protezione dell’ambiente, del genoma umano, della pace. Si veda anche la “Dichiarazione universale delle responsabilità dell’uomo”, a cura dell’InterAction Council (1997), in un preambolo e 19 articoli in cui, rilevando che “la sola insistenza sui diritti può generare conflitti, divisioni e dispute senza fine, e che l’ignorare la responsabilità degli uomini può condurre all’illegalità ed al caos”, si chiede una dichiarazione che bilanci le nozioni di libertà e di responsabilità. Significativi infine i cinque articoli della “Carta dei diritti delle generazioni future”, proposta da Jacques-Yves Cousteau all’Unesco e da questa approvata nel 1991. Una decina d’anni fa espressi l’opinione che risultasse ormai necessaria un’ampia integrazione del testo del 1948 per introdurvi la questione delle responsabilità e dei doveri. Oggi riconfermo l’assunto di allora.

[2] H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993, p. 16.

[3] Sulla differenza tra beni esclusivi e beni inclusivi cfr. il mio Il Nuovo Principio Persona, Armando, Roma 2013.

[4] Su questi temi vedi il mio Pace e guerra tra le nazioni. Kant, Maritain, Pacem in terris, Studium, Roma 2014. L’Onu, nato da un patto che astringe i suoi membri e che postula come il pactum societatis di Hobbes la perfetta parità di tutti i contraenti, la nega e la sconvolge introducendo con il diritto di veto riservato alle cinque grandi potenze gli ‘eguali più eguali’. Sturzo fu tra i molti contro il diritto di veto attribuito ai cinque grandi (cfr. La comunità internazionale e il diritto di guerra, Laterza, Roma-Bari 1992).

[5] “Messaggio alla conferenza dell’ONU finalizzata a realizzare uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari che conduca alla loro totale eliminazione”, 23 marzo 2017.

[6] Discorso ai partecipanti al convegno “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale”, 10 novembre 2017.

[7] Vedi in merito il mio Specismo, antispecismo e questione della persona, in AA. VV., Dio creatore e la creazione della casa comune, Doctor Communis”, a cura di S-T. Bonino e G. Mazzotta, Urbaniana University Press 2018, pp. 309-342.

[8] L’uomo e lo Stato, Marietti, Genova-Milano 2003,  p. 76.

[9]  “Possibilità di cooperazione in un mondo diviso”, Il filosofo nella società, Morcelliana, Brescia 1976, p. 38. Le successive citazioni si riferiscono a tale testo.

[10] Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1969, p. 107.

[11] Elaborazioni su questi aspetti sono nei contributi: Un passo avanti sui diritti e doveri. Il personalismo alla prova, “La Società”, n. 1, gennaio-febbraio 2018, pp. 141-159; Diritti universali e culture politiche, “La Società”, n. 3, maggio-giugno 2018, pp. 47-65; Antropologia cristiana e diritti umani, AA. VV., Catholic Social Doctrine and Human Rights, The Proceedings of  XVth Session of Pontifical Academy of Social Sciences, Vatican City 2010, pp. 107-127.

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